PIERCAMILLO DAVIGO E’ IL DIAVOLO: COLPEVOLE D’INNOCENZA

Data:

“Fiat iustitia et pereat mundus”
Immanuel Kant

“Piercamillo Davigo è estremamente intelligente, ma fanatico”
Piero Ottone

“Propaganda 2”= codice Davigo.

Scusatemi l’egocentrismo: lo scorso ottobre avevo scritto, in uno stato d’animo depressivo e in una giornata piovosa, nel pezzo “Scarpinato insabbiò Mafia-appalti e difende l’art. 112 della Costituzione”: “La condanna in primo grado di Piercamillo Davigo a 1 anni e 3 mesi di carcere è il segno della fine di un’epoca. Cade il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale che nella sua versione fanatica è la fonte di legittimazione teorica delle peggiori pratiche di occultamento e manomissione della verità.” Cioè il totalitarismo dell’autogoverno della Magistratura. Marzo 2024: l’intelligentissimo quanto diabolico Davigo, soprannominato il “dottor Sottile” della Magistratura – ma Giuliano Amato non ha l’ampiezza dell’orizzonte di questo giustiziere in servizio permanente effettivo – è stato condannato in Corte d’Appello alla stessa pena, che dunque diventa una sentenza di merito: rivelazione di segreto d’ufficio mediante il doppio giuoco al presunto galantuomo Paolo Storari, cioè dando in pasto alla stampa i contenuti strictly confidential dell’inchiesta sulla cosiddetta “loggia Ungheria” del tipo ’ndranghetista. Licio Gelli aveva detto a Peter Gomez che aveva paura della ’ndrangheta. Si, avete capito bene: secondo la magistratura giudicante preposta alle valutazioni di merito – quelle che umiliano la furberia della “presunzione d’innocenza” – il dottor Jekill e Mister Hyde Davigo avrebbe consegnato al Misfatto Quotidiano delle Procure i file dell’inchiesta sulla più inquinante loggia massonica dallo scandalo della P2 ricevuti dall’isolato (a suo dire) Storari: fascicolo costruito sulle dichiarazioni del pirandelliano brasseur d’affaires Piero Amara. Risultato: inchiesta bruciata, proprio da chi è considerato un galantuomo al di sopra di ogni sospetto del Pool di Mani Pulite nel ristretto club di Gherardo Colombo e Giuliano Turone. “I migliori diventano i peggiori”, fa dire Luc Besson a uno dei suoi attori, già co-protagonista dell’indimenticabile “Nikita”. Mah, in realtà le sue granitiche certezze sull’art. 112 Costituzione portato al “punto di equilibrio” celano il fanatismo come “forma mentis” e diventano “modus operandi”: pensando male, si agisce male. Ma chi è Davigo? Egli è uno dei killer al servizio di Immanuel Kant. Proprio così. La caratteristica di questo “moralista frustrato che sogna la Città di Dio”, per dirla alla Piero Ostellino, è quella di ricorrere all’iperbole travestita da sapienza: il diavolo Davigo eleva il “falso verosimile” a criterio d’interpretazione del mondo, a verità rivelata. Questo – in soldoni – vuol dire mentire, fare della menzogna un’arte, e per di più al servizio della bestiale democrazia dell’applauso, altrimenti nota come “democratie des applaudissements”. “E’ più vero che se fosse vero!”, fu la fulminante battuta di Indro Montanelli. Sharon Stone in “Basic Instinct” vi dice qualcosa? A chi scrive sì. C’è una scena indimenticabile nella pellicola che si nutre dello Zeitgeist, anziché avere valore estetico: “E’ bello mentire. Ti insegna a inventare sempre storie nuove. Si chiama sospensione dell’incredulità”. Ecco il codice Davigo. Lo stesso Piercamillo, che è un animale da palcoscenico con una conoscenza dei codici e un background giuridico che manca al suo amico-avvocato Marco Travaglio, ne è interiormente consapevole. Ma è inflessibile con se stesso, oltre che con gli altri. Una volta che cominci a deformare la realtà con l’escamotage dell’iperbrillantezza che legittima la disinformazione metodologica, non puoi fermarti. Se ti fermi sei fottuto. Ma non fermandoti, formerai la saldatura bestiale tra pensiero e realtà; la menzogna dei “paralogismi dello psicopatico” autoimposti – prima che narcisisticamente rivelati agli ingenui spettatori e lettori stregati appunto dalla magia della “sospensione dell’incredulità” –, avallerà il crimine. In questo caso della loggia Ungheria. “Le idee hanno conseguenze”, diceva Friedrich Hayek ripreso poi da George Soros. C’era un altro magistrato figlio del sessantottismo dei “pretori d’assalto” su base sub-giuridica che dava irritazione al giurista Corrado Carnevale, e che ricorreva all’iperbole travestita da rigore kantianamente inattaccabile: Bruno Tinti, già autore de “Toghe rotte” edito da Chiarelettere. Ma senza l’abilità del dottor diavolo Davigo, poi risucchiato dalla pandemia. Il Diavolo è nei dettagli (non è chiara la paternità: forse lo ha detto Victor Hugo o Friedrich Hegel). L’intervista all’ex magistrato di Fedez a Muschio Selvaggio, è stata probabilmente suggerita da un ghost writer che si è servito dell’artista per far giungere dei messaggi a Davigo: l’Howard Hunt della Ferruzzi creato giornalisticamente da Giulio Andreotti e poi diventato l’allievo prediletto, il capo ufficio stampa dell’uomo di Michele Sindona Gaetano Stammati (P2). E che si servì dell’Istituto delle Opere di Religione per riciclare la maxitangente Enimont: 2 anni e 6 mesi di carcere con sentenza passata in giudicato. C’è un passaggio inquietante della suddetta intervista dove Piercamillo il “colpevolista fino a prova contraria” parla del passaggio all’atto suicidario di Raul Gardini: forse l’irriducibile garante del Law and Order si è identificato “proiettivamente” con l’imprenditore ravennate. A pensar male, si fa peccato ma s’indovina… Non è forse vero che Ignazio Silone si era identificato con Benito Mussolini? Davigo ha pensato al suicidio?
Sembra di essere in Russia: togli una matrioska, e ne emerge un’altra.
Nel bellissimo reportage di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera che è al livello di Giovanni Bianconi “Le motivazioni della condanna di Davigo: per il Tribunale di Brescia forse un complotto maturato dentro la Procura di Milano”, vengono pubblicati passaggi salienti del verdetto di condanna nei confronti di Davigo in primo grado: “Le modalità quasi “carbonare” con cui i verbali segreti dell’avvocato Piero Amara sulla “loggia Ungheria” nel 2020 sono usciti dal perimetro investigativo del pm milanese Paolo Storari (formato Word, chiavetta Usb, consegnata nell’abitazione privata di Piercamillo Davigo), e le precauzioni adottate (dall’ex consigliere del Csm, ndr) in occasione del disvelamento ai consiglieri nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici, appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale”: tanto che il Tribunale di Brescia, nelle motivazioni della condanna di Davigo a 1 anno e 3 mesi (comprensive di 111 pagine, ndr), pronunciata in primo grado lo scorso maggio (2022, ndr) per rivelazione di segreto d’ufficio, colgono “un cortocircuito sinergico reciprocamente funzionante” tra i due (Storari e Davigo, ndr), senza che si possa capire “se quella di Storari sia stata davvero un’iniziativa “selfmade” o se non via sia stato, invece, come farebbero capire alcuni passaggi rimasti in ombra, un qualche mentore ispiratore” nel quadro di “eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano”.
Sterminio di prove, ma non si può violare il principio fissato dall’art. 27 della Costituzione: la “responsabilità penale è personale”. Così scrive Ferrarella: “… Sentenza che vai, motivazione dunque che trovi attorno alla consegna dei verbali che il pm Storari diede nell’aprile 2020 a Davigo come reazione al percepito immobilismo dei suoi dirigenti Francesco Greco e Laura Pedio nel distinguere verità e calunnie, potenzialmente impattanti in maniera indiretta sui dichiaranti Amara e Armanna molto valorizzati all’epoca dalla Procura contro Eni nel coevo procedimento sul depistaggio del processo Eni-Nigeria; verbali che poi Davigo, a suo dire per “riportare sui binari della legalità” il procedimento su “loggia Ungheria” non ancora iscritto dalla Procura di Milano, in quella primavera 2020 riferì o fece vedere o persino consegnò a dieci consiglieri al Csm, spesso condendoli di sfavorevoli accenni all’ex amico consigliere Csm Sebastiano Ardita, nominato da Amara in quei verbali (con l’ira del procuratore Nino Di Matteo, ndr).”

Ma c’è di più e di peggio, perché emerge l’ombra – ma soltanto l’ombra, niente di più – della corruzione in atti giudiziari. Sempre da Ferrarella: “E così al quarto verdetto – dopo le ricostruzioni offerte (in primo grado dalla gup Federica Brugnara e in appello dai giudici Mazza – Milesi – Nappo) delle due sentenze bresciane che assolsero dalla rivelazione di segreto Storari nel presupposto avesse sbagliato a fidarsi delle assicurazioni di legge di Davigo, e dopo l’ancora diversa ricostruzione asserita dal gup romano Nicolò Marino nell’assolvere la segretaria di Davigo al Csm (Marcella Contraffatto) dall’accusa di aver calunniato in un anonimo invio dei verbali il procuratore milanese Greco –, oggi anche la motivazione della condanna bresciana di Davigo a 1 anno e 3 mesi per rivelazione di segreto non resiste alla tentazione di impartire una complessiva riscrittura della vicenda. Riscrittura che è del tutto nuova. Perché non soltanto – come proposto in aula dal legale di parte civile di Ardita, Fabio Repici – richiama “numerosi indizi che suggeriscono che Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte di Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020; ma soprattutto perché si spinge a valutare “ad esempio poco verosimile che Storari, prima della consegna dei verbali di Amara, non si sia consultato con qualche collega milanese: è evidente che la prova di eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano finirebbe per spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo”.
Sarebbe un colpo di scena, che resta però a mezz’aria perché la sentenza, non in grado di poggiare questa suggestione su fatti, lo aggancia all’“oscuramento degli indirizzi di posta elettronica nella disponibilità di Davigo” dopo essere andato in pensione nell’ottobre 2020, “alla mancata conservazione dei documenti nella memoria del suo computer” e del telefonino dato in permuta a un centro assistenza, e al “vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti”: una “morìa di possibili elementi di riscontro che è lecito pensare sia avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione nell’aprile 2021 di Contraffatto”, cioè della segreteria di Davigo al Csm…”. Quel che è accertata però, è soltanto – soltanto, si fa per dire – la violazione del segreto investigativo, una prassi in uso dai tempi del glorioso Pool.

E’ un quadro che oggettivamente riporta all’annus horribilis 1981 mese di marzo, con la perquisizione di Castiglion Fibocchi disposta dai giudici Turone e Colombo. Ma che anzi, la supera in gravità: parliamo delle infiltrazioni corruttive dentro l’ordine giurisdizionale; chissà l’avvocato Carlo Palermo cosa ne pensa… La Weltanschauung massonica di Francesco Pazienza non piace a chi scrive, ma come si può negare che la Magistratura è ridotta ormai a “una guerra per bande”?
Nelle condotte dell’ex segretario dell’Anm c’è il “diniego” come manifestazione della negazione del principio di realtà in favore dell’imbroglio; il coltissimo Umberto Galimberti così scrive a proposito del significato della parola diniego: “… Questo vizio è il “diniego” che consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce…”.
Scrive Luciano Capone l’8 marzo 2024 su “Il Foglio”, “Il codice penale vale più del codice Davigo”: “Nel processo d’appello di Piercamillo Davigo, conclusosi con la condanna a 1 anno e 3 mesi che conferma quella di primo grado, c’è un episodio marginale rispetto all’accusa di aver spiattellato notizie coperte da segreto ma molto rivelatore. Una bugia evidenziata da Fabio Repici, avvocato del magistrato Sebastiano Ardita, parte lesa per la divulgazione dei verbali sulla fantomatica loggia Ungheria. Davigo aveva infatti dichiarato di non essere più in possesso della memoria del telefono, e in particolare delle chat Whatsapp. Una cosa insolitamente frequente in questo processo, visto che anche i testimoni Giovanni Salvi e Francesco Greco, rispettivamente ex procuratore generale della Cassazione ed ex procuratore di Milano, hanno perso il cellulare…”
Su questi fatti si è consumata la rottura tra Davigo e Di Matteo, e anche tra lo stesso Travaglio e Di Matteo.

Cosa c’è dietro questa bugia di Piercamillo?
Se voi mi chiedete: ma com’è possibile che Davigo abbia commesso comportamenti che – secondo il Tribunale di primo grado e la Corte d’Appello, poi si vedrà che cos’ha da dire la Suprema Corte di Cassazione – rientravano più nella prassi di un Licio Gelli, che di un presunto galantuomo del cosiddetto Pool dalle “magnifiche sorti e progressive”? Rispondo: è possibile, perché se si eleva l’articolo 112 della Costituzione al “punto di equilibrio”, si favorisce il crimine. Il Diavolo si allea con il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale, da Mani Pulite alla loggia Ungheria; c’è una connessione tra ragione e delinquenza, che sarebbe il caso di sottoporre all’attenzione del “gius-filosofo” Otello Lupacchini, venuto a contatto con il lato oscuro quando si occupò delle gesta della Banda della Magliana. Scusatemi la lunghezza e la violazione della regola di Montanelli – “un concetto per articolo –, ma il pensiero è parte della realtà, quando nella vulgata comune lo si ignora bellamente.
Orbene, si evidenziano due illustri precedenti del principio di obbligatorietà dell’azione penale portato al “punto di equilibrio”, un comportamento criminogeno lungo il “Fiat iustitia et pereat mundus” dell’Immanuel: alcuni anni fa, un altro cittadino al di sopra di ogni sospetto di nome Francesco Greco, considerato uno dei maggiori esperti dei white collar crimes, prese una decisione simile a Diego Curtò ordinando il sequestro preventivo delle azioni Fininvest acquistate dal lupo bretone Vincent Bollorè, che stava scalando l’impero del Biscione mentre il Cavaliere senza capitali veniva operato al cuore al San Raffaele; Greco, lo stesso che – a torto o ragione – il suo subordinato Paolo Storari ha accusato di voler archiviare immotivatamente l’inchiesta sulla super loggia, intralciò gli “animal spirits” di Bollorè dopo aver ritirato la memoria cavillosa dell’avvocato azzeccagarbugli Niccolò Ghedini. Un comportamento lesivo del Mercato – sia detto di passata – quello della “toga quasi azzurra” Greco, che non aveva precedenti dal provvedimento monstre del giudice Diego Curtò che, intralciando un altro imprenditore vent’anni prima – il ravennate Raul Gardini – aveva sabotato la fusione tra Eni e Montedison, nota come Enimont.
E sappiamo che c’era stata una corruzione in atti giudiziari sanzionata con sentenza passata in giudicato (Curtò venne pagato dagli uomini del CAF, Craxi-Andreotti-Forlani). Ma che dire, poi, della vicenda giudiziaria del Conte Protezione? L’avviso di garanzia recapitato il 10 febbraio 1993 dalla Procura di Milano agli onorevoli Bettino Craxi e Claudio Martelli per la bancarotta del Banco Ambrosiano coesisteva con i disegni di Licio Gelli. Il Diavolo è nell’art. 112, da Mani Pulite alle matrioske di Ungheria. Tre indizi sono una prova.
Piercamillo Davigo è il Lucifero dell’Illuminismo: innocente fino a prova contraria.
Ma i pozzi istituzionali sono avvelenati.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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