Lodare i morti è un’abitudine comune, ma non esageriamo…
Da decenni in Italia si pratica uno sport patetico: il birignao post-mortem nei confronti dei presunti “salvatori della Patria”, soltanto perché costoro hanno ricoperto cariche prestigiose, dal Quirinale alla Consulta ecc… Nel 2008, alla morte dell’editore Carlo Caracciolo, la figlia illegittima Giacaranda disse: “Era una persona meravigliosa”. Letta la sua dichiarazione, l’ultra-disincantato Piero Ottone esclamò: “Ah, il birignao quant’è fastidioso!”. Con tanto di genuflessione piccolo-borghese al Principe, che spesso è vanitoso e mediocre.
Orbene, è morto lo zar dei giuristi italiani Stefano Rodotà, “il prolungamento aristocratico di Oscar Luigi Scalfaro” come l’ha definito Ferdinando Cionti. Quei costituzionalisti vanitosamente machiavellici alla Franco Cordero, l’anti-Montanelli per eccellenza nella mediocritas di un giuridichese quasi incomprensibile, e Sir Gustavo Zagrebelsky che credono nella“nobile menzogna” di Leonid Trozkij: il popolo è bue, e va governato dai sacerdoti del monopolio democristiano del verbo, come lo chiamava con sarcasmo il grande Indro.
Che sia menzogna è acclarato, quanto nobile non lo so. In memoria di Rodotà la rivista Micromega di Paolo Flores D’Arcais ha pubblicato un numero speciale intitolato: “Tornare a Keynes – solo l’eguaglianza ci può salvare”. La tesi centrale dell’almanacco di economia, rilanciata soprattutto dall’economista rodotiano Thomas Fazi, è questa: quarant’anni fa la Commissione Trilaterale ha distrutto con un’aggressione piduista i fondamenti macroeconomici del New Deal di Franklin Roosevelt e John Maynard Keynes, che sosteneva la spesa pubblica in deficit a lungo termine, mettendo in atto la famigerata “contro-rivoluzione conservatrice” del neoliberismo (una parola semanticamente vuota) che oggi troverebbe nel divorzio Banche Centrali/Stati e Fiscal Compact i pilastri della “neo-Costituzione preventiva”: l’inveroconda espressione democristiana usata proprio da Stefano Rodotà nel 2011.
Traggo ispirazione dal saggio di Thomas Fazi“Una crisi iniziata quarant’anni fa” che si ispira al libro “Solidarietà” di Stefano Rodotà, per rilanciare ai lettori il mio punto di vista: riproporre oggi su basi keynesiane il ripristino della subordinazione della Banca d’Italia al Ministero del Tesoro nel Belpaese della “passione andreottiana” per i giocatori d’azzardo alla Giuseppe Mussari e Stefano Ricucci è un insulto intellettuale alla lezione dell’eroico commissario liquidatore della banca privata italiana Giorgio Ambrosoli, che non si piegò alla politicizzazione della Banca d’Italia nel 1979, poiché si oppose alla spesa pubblica in deficit – tanto amata dal nevrotico Keynes–nei confronti del banchiere fallito Michele Sindona (sic!).
Lo Stato non è“troppo grande per fallire”. Esso deve essere guidato da organismi sovranazionali: come la Bce; è stato l’“eroe borghese” Ambrosoli, con il suo sacrificio, a spianare la strada al meraviglioso divorzio tra banche centrali e Stati nazione. Se con il M5S che candidò Rodotà al Colle tornassimo invece alla nazionalizzazione della Banca d’Italia tanto agitata in queste ore, sarà l’Italia di Ambrosoli a perdere. Più Ambrosoli, meno Rodotà. Si chiama Realpolitik.
di Alexander Bush