Un’analisi storica dei guasti prodotti dal propozionale in Italia
Tira daccapo vento di “proporzionale”? “L’assassino torna sempre sul luogo del delitto”, verrebbe da ripetere. L’assegnazione dei seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti fu introdotta in Italia giusto un secolo fa, con la legge 15 agosto 1919, n. 1401. Dal 1848 al 1861 il Regno di Sardegna e dal 1865 al 1913 quello d’Italia avevano utilizzato i collegi uninominali, con ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno. Con alcune modifiche transitorie ma non sostanziali tra il 1882 e il 1890, quel modello propiziò il passaggio dalla monarchia rappresentativa a quella parlamentare, già vaticinato da Camillo Cavour e poi pienamente attuato da Giovanni Giolitti. Nei collegi uninominali gli elettori sceglievano il candidato più capace di rispondere ai bisogni locali. Poiché il diritto di voto era riservato a cittadini consapevoli e i deputati non rappresentavano i loro elettori ma la Nazione, si era così instaurato un equilibrio virtuoso tra tutela del collegio elettorale e visioni di ampio respiro. D’altronde i parlamentari erano generalmente persone di solida cultura, patrizi, professionisti, funzionari dello Stato forniti di mezzi che li rendevano liberi da condizionamenti. In mezzo secolo i collegi uninominali plasmarono una dirigenza politica qualitativamente non inferiore a quella di Stati di più lunga esperienza parlamentare, che poi, ridotti all’osso, erano la Gran Bretagna, la Francia e alcuni di minori dimensioni, quali il Belgio e i Paesi Bassi. La Spagna dei “cacicchi” era altra cosa.
Nel 1912 il diritto di voto fu conferito a tutti i maschi maggiorenni alfabeti, a quanti avessero prestato servizio militare e ai trentenni anche se analfabeti e militesenti. Il presidente del Consiglio Giolitti spiegò che l’esercizio del voto non poteva più dipendere dal maneggio delle 24 lettere dell’alfabeto. Però a far da argine a imprevedibili scossoni rimasero i collegi uninominali. Lì ogni elettore conosceva ciascun candidato. Poteva essere illuso o raggirato una o due volte, ma non all’infinito, e non era ben disposto verso candidati catapultati da chissà dove, soprattutto se privi della dote basilare del “fare politica” ovvero la capacità di “ascoltare” l’elettorato.
L’introduzione del suffragio universale maschile fu provvidenziale. Sarebbe stato impossibile mettere in divisa cinque milioni e mezzo di cittadini durante la Grande Guerra se in cambio non avessero avuto almeno il diritto di voto. L’Italia sarebbe precipitata in una crisi di sistema come la Russia di Nicola II.
Sulla fine del conflitto, dopo decenni di proposte avanzate da pattuglie di esperti di leggi elettorali, il Fascio di difesa parlamentare e i nazionalisti alzarono la bandiera della proporzionale per garantirsi il ritorno alla Camera. A loro bastava essere minoranza (tendenzialmente “rumorosa”), nel solco delle Estreme, sia di sinistra sia di clericali oltranzisti. Anche pochi scranni consentivano di “testimoniare”, di gridare il “no” alla maggioranza moderata, concreta, fattiva che in pochi decenni aveva portato l’Italia da arretratezza e sottosviluppo a Paese moderno. Certo molto altro occorreva. Lo aveva detto Giolitti inaugurando un ospedaletto per l’infanzia. Ci volevano due generazioni ben educate e bene allevate per portare gli italiani ai livelli di Stati dalla storia unitaria plurisecolare.
In breve la “proporzionale” divenne il cavallo di battaglia dei socialisti e del Partito popolare italiano fondato il 19 gennaio 1919 da don Luigi Sturzo. Per non essere tacciati di avversione alla democrazia anche i liberali si accodarono: alcuni per assicurarsi almeno un buon numero di seggi, altri per sottovalutazione delle possibili ripercussioni. Il pur navigato Giolitti il 12 luglio confidò alla moglie, Rosa Sobrero (Gina), il suo disinteresse per la riforma della legge elettorale: “Credo sia cosa di nessuna portata. Io credo che di fronte ai grandi guai del paese questi pannicelli caldi lasciano il tempo che trovano”. A suo giudizio urgeva ripristinare la finanza pubblica, frenare la svalutazione del potere d’acquisto della lira, che trascinava con sé aumenti di salari e stipendi e, conseguentemente, il dissesto del bilancio dello Stato e degli enti locali, ripristinare la quiete pubblica preda della scioperomania e riaffermare la dignità dell’Italia dinnanzi alle Grandi Potenze. Tutto vero, ma per un attimo anche all’anziano statista sfuggì che qualunque Esecutivo deve basarsi su una maggioranza solida e durevole. La proporzionale, invece, era fatta apposta per generare instabilità.
Indeciso a tutto, il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, procrastinò la data delle votazioni sino al 16 novembre: troppo tardi per le aree montane ove erano più radicati i moderati di tradizione liberale e cattolica.
Il Paese andò alle urne in grave affanno? Dalle cronache giornalistiche pareva fosse sull’orlo dell’abisso. In realtà votò il 56,6% degli aventi diritto: una tra le partecipazioni più basse dall’unità, inferiore a quella del 1909 e persino del 1913, quando fu sperimentato per la prima volta il suffragio quasi universale maschile. Nel 1919 nell’Italia settentrionale votò il 64% degli aventi diritto, nell’Italia meridionale appena il 50% e in quella insulare il 46%. Gli elettori vivevano in modo molto diversificato gli assilli del Paese, dei parlamentari, dei partiti.
La proporzionale ebbe un esito catastrofico. Su 508 deputati ben 327 furono di nuova nomina. Con il 32,3% dei suffragi i socialisti ottennero 156 seggi; i popolari, con il 20,5%, ne ebbero 106. Sommati i due partiti di massa avevano la maggioranza, ma erano gli uni contro gli altri armati: si andava dal “libero amore” alle gonne sin sotto i piedi. I “centristi” si attestarono al 36,9% ma, essendo frastagliati, si divisero tra liberali (41 seggi) e liberal-democratici (146 seggi). I radicali furono appena 12 e i socialriformisti 6. I repubblicani precipitarono a 4: il loro peggior risultato di sempre, proprio mentre tanti chiedevano di rovesciare la monarchia.
I socialisti ottennero il 42,5% dei consensi al Nord, il 56% al Centro e appena il 6,7% nel Mezzogiorno (con una punta migliore in Puglia). I popolari contarono 20 seggi in Lombardia, 17 nel Veneto, 11 nel Piemonte di don Bosco e dei “santi sociali”, appena 4 in Liguria e nel Lazio, 1 in Umbria e in Sardegna, nessuno in Basilicata. Ne ottennero 6 nella Sicilia di don Sturzo contro i 30 dei democratici liberali convergenti con la Democrazia sociale del teosofo Giovanni Antonio Colonna duca di Cesarò. Il Paese, insomma, era molto più frammentato di quanto indicassero i risultati complessivi. D’altronde aveva vissuto la guerra in modi e misure del tutto differenti.
Per la prima volta i votanti si trovarono dinnanzi una scheda su cui comparivano i soli contrassegni dei partiti in lizza: un favore per gli analfabeti e un freno a manipolazioni e brogli. I partiti si premurarono di distribuire volantini con i nomi dei candidati da votare e, soprattutto, con il simbolo ben nitido, solitamente semplice e diretto. Per esempio una spiga di grano con la stella d’Italia. Per allentare la drammatizzazione della contesa Camillo Peano, uno tra i più fidi collaboratori di Giolitti, fece introdurre nella legge la possibilità che l’elettore aggiungesse ai nomi presenti nella lista preferita anche quello di un candidato di una lista diversa. Il “panachage” (screziatura) era da tempo in uso Oltralpe (per esempio in Belgio) per propiziare sin dalle urne la formazione di una coalizione di governo. Esso fu l’ultima eredità del collegio uninominale, giacché consentiva all’elettore di esercitare un “voto di stima”. L’opportunità non ebbe però una vasta eco nella pratica. Funzionò proprio là dove Giolitti meno se l’aspettava, cioè nella “sua” provincia di Cuneo. Lì, debitamente istruiti, parecchi liberali aggiunsero la preferenza per il cattolico Giovanni Battista Bertone; i popolari, tuttavia, non fecero altrettanto. Ne conseguì che gli sturziani conquistarono quattro seggi (come i socialisti) contro i tre dei liberali (Giolitti, Soleri e Peano) e che l’ex presidente del Consiglio ebbe meno preferenze di Bertone: un’umiliazione non da poco per lo statista.
Mentre doveva curare le immense ferite della Grande Guerra l’Italia si trovò con due partiti grossi ma non grandi e molti partitini che anteposero i propri interessi di fazione a quelli del Paese.
La seduta inaugurale della Camera annunciò la tempesta. Mentre Vittorio Emanuele III si accingeva a pronunciare il discorso della Corona i socialisti intonarono l’Internazionale e uscirono dall’aula. Sulla base del nuovo regolamento si formarono undici gruppi parlamentari, nominalmente di almeno 20 membri, in realtà anche solo di 10. Malgrado il vistoso successo di due partiti di massa, che si schierarono all’opposizione, la Camera risultò un caleidoscopio di partitini. L’esatto contrario di quanto occorreva al Paese per risalire la china.
La proporzionale non determinò subito il collasso della democrazia liberale perché, dinnanzi all’inconcludenza di Nitti, il Re affidò il governo al settantottenne Giolitti. Nelle elezioni amministrative dell’autunno 1920 lo statista incoraggiò tutto dove possibile la formazione di “blocchi” comprendenti liberali, cattolici moderati, democratici (ex radicali e socialriformisti), combattenti, “agrari” e qualche sporadico militante nel movimento fascista.
L’anno seguente Giolitti ottenne lo scioglimento della Camera e la sua rielezione, a legge elettorale immutata: un errore strategico.
I socialisti persero una trentina di seggi, ma nella nuova Camera entrarono i comunisti che ne ebbero 15. Per non farsi scavalcare a sinistra i socialisti su arroccarono su posizioni anti-sistema. Fu il suicidio delle sinistre, come intuì Anna Kuliscioff. I popolari aumentarono a 107 seggi ma a loro volta vissero di “veti” (anzitutto contro Giolitti) e si resero invisi persino alla Santa Sede. I “liberali” si sfarinarono in diverse sigle. Nacquero quattordici gruppi parlamentari, tra i quali quello fascista con appena 35 deputati su 535. La “maledetta proporzionale” (definizione data da Giolitti e ripresa da Dario Fertilio in un acuto saggio su “I chi, come e perché della democrazia maggioritaria”, Bibliotheca Albatros) dette il suo frutto avvelenato: l’ingovernabilità. Questo accadeva in un Paese che, al culmine di una lotta senza quartiere tra opposte fazioni armate, il giorno delle elezioni lamentò quaranta morti e settanta feriti gravi.
Alla vigilia del voto Giolitti lasciò Roma per accorrere a Cavour, ove giaceva la salma della moglie. Stava finendo un mondo, sotto i colpi ripetuti di una legge elettorale dalle conseguenze tossiche.
È davvero il caso, cent’anni dopo, di riproporre proprio quel modello? Sarebbe un omaggio alla legge del pendolo, che ha visto l’Italia passare dal maggioritario spinto (una straripante maggioranza a chi ottenga almeno il 25 % dei consensi, come la “legge Acerbo” del 1923, o il 40% come oggi) alla proporzionale pura. Il correttivo potrebbe essere forse la via di mezzo, rappresentata dalla legge approvata il 29 marzo 1953, ferocemente combattuta come “legge truffa” dalle sinistre e dal movimento sociale nelle Aule e nel Paese. In realtà essa, condivisa da liberali, socialdemocratici e repubblicani di allora, assegnava 380 seggi su 630 alla coalizione che avesse ottenuto il 50%+1 dei voti validi. Se non fosse fallita alle urne per lieve scarto e non fosse stata subito abrogata, quella legge avrebbe probabilmente assicurato alla Prima Repubblica la stabilità di governo che le mancò e le avrebbe evitato di finire succuba della partitocrazia in tutte le sue metamorfosi e manifestazioni.
di Aldo A. Mola