Il fardello della classe dirigente
Non è vero che “gli italiani” non sappiano decidere. Farlo, però, non tocca ai “cittadini” ma a chi ha e deve esercitare il Potere: dal Capo dello Stato al governo e alla dirigenza, sia quella favorevole all’immobilismo o persino alla reazione, sia quella che si erge a interprete del cambiamento e propugna le “riforme”. Il comune cittadino ha informazioni, opinioni, pulsioni, ma non possiede tutte le cognizioni necessarie e sufficienti per tradurre le sue personali aspirazioni in decisioni valide ed efficaci “erga omnes”. Questo compito spetta a chi riveste cariche pubbliche (munera, dicevano i romani), in corrispondenza e proporzione con la sua posizione.
E’ comunque chiaro che in un sistema parlamentare (qualunque sia la forma dello Stato, monarchia o repubblica) a decidere non è, non può essere “un uomo solo al comando”, se non in preda a delirio di onnipotenza. Men che meno in regime costituzionale il presidente del Consiglio può pretendere di riprendere il sentiero sassoso dei decreti “motu proprio”, già sonoramente bocciati da tutti i costituzionalisti e, ciò che più conta, dall’opinione della stragrande maggioranza dei cittadini, esasperati da misure coercitive e vessatorie, tipiche di sistemi autocratici.
Certo, governare non è mai stato facile. Ma non dovrebbe essere impossibile in una democrazia parlamentare quale l’Italia odierna sin dall’adesione alla Nato consentì “a condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Costituzione), mettendosi così al riparo dal rischio di aggressioni e di iniziative stravaganti o autolesionistiche del proprio governo pro tempore o del suo presidente. Perciò la dirigenza (a tutti i livelli) dovrebbe prendere atto a viso aperto della cornice entro la quale l’Italia può muoversi e renderne edotti i cittadini con parole chiare, fatti alla mano. Far credere ai cittadini che lo Stato possa decidere liberamente la propria politica estera e militare e, di conseguenza, quella interna (finanziaria, economica e sociale, a tacere dell’istruzione pubblica) significa alimentare la credulità popolare con promesse da “frate Cipolla”. Questa è purtroppo la linea del governo attuale, che raggira quotidianamente al Paese. Tale condotta ha una spiegazione: far credere agli italiani di potersi permettere il lusso di mandare in Parlamento persone del tutto impreparate, spesso sprovvedute e giullaresche, manifestamente ignare della pesantissima responsabilità che grava sui “politici”, anche quando siano chiamati a fare i proconsoli di Bitinia (come Plinio il Giovane) anziché a reggere un impero (come Marco Ulpio Traiano, al quale Plinio chiedeva consigli per svolgere la propria parte).
Per meglio comprendere la distanza abissale tra tanta parte del “ceto politico” che attualmente governa e amministra l’Italia e la grandezza di una dirigenza vera giova ricordare quanto avvenne nel 1846-1848 nello “spazio Italia” che il cancelliere imperiale austriaco Clemens von Metternich liquidò come “espressione geografica”. Quel “Quarantotto” per l’Italia fu l’anno della grande prova, ben più impegnativa e complessa di quelle vissute durante e subito dopo la partecipazione alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale, le due fasi della Guerra dei Trent’anni del secolo scorso. Dopo il 1918-1919 l’Italia visse i postumi di un trauma i cui precisi termini sfuggono alla percezione comune perché oggi è difficile calarsi nella tragedia di un Paese avvolto nel lutto (un milione e mezzo di morti per causa di guerra e per l’epidemia di febbre detta “spagnola”) e prostrato dalle indicibili sofferenze dei mutilati e dei feriti (curati come all’epoca si sapeva e si poteva) e di quelle dei milioni di combattenti smobilitati nel difficile passaggio dalla produzione di guerra a quella di pace, in un’Europa sconvolta da crolli di istituzioni secolari e da rivoluzioni politiche e sociali. La patetica retorica di Giuseppe Conte sulla pandemia da covid-19 e persino le previsioni di guai nel prossimo autunno, ventilate dal Viminale quasi a scanso di colpa, dànno la misura della modestia della memoria storica di chi al governo è arrivato non per libera scelta degli elettori ma suffragio per designazione di “cupole” partitiche e da “piattaforme” estranee alla democrazia parlamentare, sensibili a interessi non sempre coincidenti con il bene comune.
Le lunghe barbe del Quarantotto
Il Quarantotto fu altra cosa. Il suo frutto più durevole scaturì sulla primavera. Maturò il 4 marzo 1848, quando Carlo Alberto di Savoia promulgò lo “Statuto organico” del regno di Sardegna, rimasto formalmente valido anche dopo il cambio della forma dello Stato d’Italia (19 giugno 1946): sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nell’impossibilità di rievocarne analiticamente genesi e contenuti, studiati da oltre un secolo e mezzo da costituzionalisti e storici di vaglia come Carlo Ghisalberti e Gian Savino Pene Vidari, va ricordato che esso sintetizzò due opposte esigenze.
Nel Preambolo il Re affermò di aver deliberato gli 84 articoli della Carta “prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del (suo) cuore” per “conformare” le sorti dei regnicoli “alla ragione dei tempi, agl’interessi e alla dignità della Nazione”. Lo Statuto, tuttavia, venne definito “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Il Re sottoscrisse, seguito dai ministri (Borelli, Avet, De Revel, Des Ambrois, E. di San Martino, Broglia, C. Alfieri). Così vincolò sé e impose ai successori di giurare fedeltà alla Carta al loro insediamento.
Re “per grazia di Dio”, Carlo Alberto lasciò trasparire che lo Statuto, deliberato “di sua certa scienza, Regia autorità e avuto il consenso del suo Consiglio”, fosse nato anche su sollecitazione esterna (“in mezzo agli eventi straordinari che circondavano il paese”), al di là della sua propria ed esclusiva volontà, fermamente rivendicata nel Preambolo. In tal modo veniva tacitata l’avversione di quanti (anzitutto gran parte del clero, avverso al teologo Vincenzo Gioberti) lo ritennero cedimento della Monarchia alla pressione di forze ostili alla Tradizione. In realtà, come ampiamente documentato e argomentato da Narciso Nada nell’insuperata storia del regno di Sardegna, il cinquantenne Carlo Alberto aveva percepito e assecondato da tempo la “svolta” anche prima dell’8 febbraio 1848, quando vennero “proclamati” (non semplicemente “annunciati”) i 14 capisaldi della “costituzione” ventura.
Questi erano il punto di arrivo di un processo per molti aspetti maturato e già tradotto in regi decreti dall’anno precedente. Sarebbe lungo ripercorrere i passi compiuti dal sovrano per dare corpo formale al mutamento del rapporto tra Corona e regnicoli sin dall’inizio degli Anni Quaranta: un cammino scrupolosamente osservato e documentato da molti suoi protagonisti, come Massimo d’Azeglio, diffidente delle sue recondite intenzioni anche quando il Re lo abbracciò assicurandogli che, giungendo l’ora, avrebbe messo se stesso, i figli e i beni a disposizione della libertà dell’Italia. A sua volta Luigi Francesco Des Ambrois de Nevache annotò che nel corso degli anni, non dall’oggi al domani, Carlo Alberto si era circondato di una élite di uomini abili, capaci e decisi, “che seppero svuotare lo Stato dall’interno dei suoi contenuti più arcaici, seppero trasformarlo da Stato militare e semifeudale a Stato moderno e civile”, preparandolo a divenire Stato nazionale.
Il 1847 fu scandito da eventi premonitori, mentre l’intera Europa viveva agitazioni e persino la quieta Svizzera fu sconvolta dal conflitto armato tra liberali e cattolici. Quasi a coronamento dei Congressi degli Scienziati Italiani, fra il 30 agosto e il 3 settembre si svolse a Casale Monferrato il Congresso Agrario promosso da Pier Dionigi Pinelli (1804-1852), direttore di “Il Carroccio”. Il conte di Castagnetto, suo “portavoce”, vi lesse l’impegnativa lettera di Carlo Alberto, pronto a battersi per l’indipendenza dell’Italia.
Nel Consiglio di Conferenza del 30 ottobre 1847 Carlo Alberto sanzionò il nuovo codice di procedura penale e altre importanti riforme giudiziarie e annunciò l’elettività dei consigli comunali e provinciali, regolamentata con il Regio Editto del 27 novembre che sancì il gradimento da parte della Corona del “lavoro che da tempo si stava preparando” per stringere i vincoli tra la monarchia e una dirigenza diffusa. Migliaia e migliaia di cittadini sarebbero stati scelti dagli elettori quali propri rappresentanti per amministrare i loro interessi generali in una stagione caratterizzata dall’espansione rapidissima delle infrastrutture (strade, ferrovie, nuovi canali irrigui), del sistema bancario (anche con la moltiplicazione delle casse di risparmio) e dell’informazione. Le regie patenti sull’elettività dei consigli locali si accompagnò infatti a quelle sulla libertà di stampa, già precedute dalla nascita di periodici politici influenti e in breve salutate dalla proliferazione di nuove testate, protagoniste del dibattito culturale e politico.
In pochi mesi il regno di Sardegna mutò volto, prima che a Palermo scoppiasse la rivoluzione del 12 gennaio 1848 e che il 24 febbraio a Parigi venisse cacciato Filippo d’Orléans e fosse proclamata la seconda Repubblica, di lì a poco presieduta dal poeta Alfonso Lamartine.
Lo Statuto, pilastro della monarchia rappresentativa
Tra l’ottobre 1847 e la fine del gennaio 1848 crebbero di intensità le pressioni dei fautori di un mutamento più profondo e netto, da realizzarsi mediante la promulgazione della costituzione: cortei, manifestazioni, banchetti politici (a imitazione di quelli in uso in Francia: fu il caso dei commercianti con la partecipazione di Camillo Cavour; dei mastri e garzoni carrozzai, presente Roberto d’Azeglio…) e “feste” apparentemente spontanee, ma di fatto organizzate e tollerate da chi ne aveva bisogno per accelerare la svolta dalla monarchia amministrativa e consultiva a quella propriamente rappresentativa, precorsero il “congedo” del conte Clemente Solaro della Margarita da segretario di Stato per gli Affari Esteri e del marchese di Villamarina da ministro di Guerra e Marina.
Il 4 novembre 1847 il conte Ilarione Petitti di Roreto scrisse a Michele Erede: “I retrogradi sono avviliti. Primo d’essi il conte La Torre, in casa del quale da alcuni giorni si piange e si prega, non però Pio IX. I Gesuiti non si vedono più”. Il “cambio” mutò rapidamente volto. Dopo l’elettività alle cariche amministrative, furono posti al centro antichi diritti di libertà, destinati a fare del Regno di Sardegna lo Stato guida del processo di unificazione nazionale. In primo luogo la piena libertà di culto e la parità dei diritti civili e politici dei cittadini non cattolici, anzitutto i valdesi e protestanti in genere, poi gli israeliti, e, di concerto, l’offensiva contro la Compagnia di Gesù, elevata a simbolo della reazione antiliberale.
All’inizio del gennaio 1848 circolò voce che il Re stesse per istituire una Consulta di Stato con voto deliberativo e decretare la responsabilità dei ministri nella gestione degli affari dei dicasteri loro affidati, l’emancipazione degli israeliti, la diminuzione del prezzo del sale, la guardia civica, un’amnistia (per reati “politici”) e l’espulsione dei gesuiti dal regno.
Il Consiglio di Conferenza (istituito il 1 maggio 1815 e ulteriormente regolamentato il 9 ottobre 1841) su sollecitazione del ministro dell’Interno, conte Borelli, prese in esame la “crisi politica” del regime ormai al bivio: precorrere le pressioni con l’emanazione di una costituzione od opporvisi con tutti i rischi conseguenti. Nel primo caso, bisognava preparare tutto “avec le plus de dignité possibile pour la Couronne, avec le moins de mal possibile pour le pays. Bisogna concederla, non farsela imporre: dettare le condizioni, non subirle…”.
Dopo il già ricordato Proclama dell’8 febbraio, il Consiglio di Conferenza iniziò una corsa contro il tempo: “préparer lo Statut organique et les différents lois qui s’y rapportent, entre autres la loi electorale, la loi sur la presse et celle concernante la Milice Communale”.
Per arginare, il 17 febbraio il Consiglio fissò per il 27 successivo la festa per le nuove “concessioni accordate dal Re”, tra cui spiccano le Lettere patenti che da quel medesimo giorno riconobbero ai valdesi tutti i diritti civili e politici.
Lo stesso 17 febbraio il Consiglio iniziò l’esame dello Statuto organico (sempre in francese, ma il testo della Carta fu scritto in italiano, come risulta dai verbali redatti dal conte Radinati), a cominciare dalla successione al trono, “que l’on a cru devoir laisser régler par la loi salique selon les principes fondamentaux de l’Etat”. La monarchia di Savoia era e rimaneva incardinata sulla successione di maschio in maschio e sulle Regie Patenti che subordinavano le nozze dei componenti della Casa all’assenso del sovrano: leggi immutabili, come Umberto II scrisse ripetutamente al figlio, mettendolo in guardia dalle conseguenze perpetue della loro violazione.
Devoto alla Tradizione e sicuro di essere strumento della Provvidenza, l’“italo Amleto” (quale Carlo Alberto fu appellato da Giosue Carducci nell’ode “Piemonte”) firmò. Decise la storia. Saldò con i nodi di Savoia la monarchia sabauda e le onde tumultuose di un’Italia nel pieno di trasformazioni politiche: le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo), che cacciarono gli Austriaci; la fuga di Francesco V d’Asburgo da Modena, quella di Carlo Ludovico II di Borbone da Parma e Piacenza. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra a Ferdinando II d’Asburgo, imperatore né romano, né sacro, ma d’Austria, che di lì a poco passò la mano al nipote, Francesco Giuseppe. Con i plebisciti del 29 giugno Milano e Piacenza vollero Carlo Alberto Re statutario. Da un capo all’altro l’Europa era sconvolta da insurrezioni e rivoluzioni. In febbraio Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il “Manifesto del partito comunista”. Lo stesso anno comparve l’opera più importante di John Stuart Mill. Da poco Louis Blanc (fautore degli Ateliers Nationaux: sempre meglio che l’elemosina per esistenza in vita, spacciata come “reddito di cittadinanza”) e Jules Michelet iniziarono a pubblicare le rispettive storie della Rivoluzione francese, mezzo secolo dopo “i fatti”.
Lo Statuto albertino sopravvisse alla sconfitta militare del Regno di Sardegna (lasciato solo da alleati fedifraghi: Pio IX, Ferdinando II di Borbone, Leopoldo II di Asburgo-Lorena..) e all’avvicendarsi di sette governi in meno di due anni (Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, Chiodo, de Launay), al ripetuto scioglimento della Camera, alla “brumal Novara” (23 marzo 1849), all’esilio del Re, morto ad Oporto a fine luglio. Dieci anni dopo suo figlio, Vittorio Emanuele II, entrò vittorioso in Milano e a fine 1870 in Roma, ove rievocò il Magnanimo genitore e celebrò l’unione tra istituzioni e “popoli d’Italia”. La base dell’Unità nazionale era antica e nuova: venne fusa al calor bianco in sole quattro sedute del Consiglio di Conferenza, sempre presente Re Carlo Alberto, pallido, assorto, attento a ogni parola, conscio di avere sulle spalle non solo otto secoli e mezzo della sua Casa ma il suo ruolo nella costruzione della Nuova Europa, con equilibrio, lungimiranza e determinazione, “a qualunque costo”. Lo Statuto durò cento anni. La Costituzione vigente ne ha 72. Il caos politico, economico e sociale ci ricorda che la Storia è sempre questione di classe dirigente, della sua capacità di coniugare istituzioni e cittadini.
Nella foto:Busto in marmo di Re Carlo Alberto. Già nel Palazzo Civico di Saluzzo (donato dal Re alla città), dopo l’avvento della repubblica venne gettato a capofitto nelle cantine del museo di Casa Cavassa e lì giace, scheggiato e dimenticato. L’iconoclastia non è solo di questi giorni.
di Aldo A. Mola