Quando la Groenladia usci dalla UE
Sicché non era solo una boutade sparata dal Wall Street Journal: Donald Trump voleva davvero acquistare la Groenlandia, come un suo predecessore fece con l’Alaska (comprata dalla Russia). Il che la dice lunga sulla cultura più imprenditoriale che politica del presidente, e sul suo gusto assoluto per lo spettacolo. Ma che fa riaffiorare anche un precedente dimenticato: prima della Brexit, ci fu la Groenexit. Il termine nel lontano 1984 non era stato coniato; e l’uscita di Nuuk da quella che allora si chiamava Comunità Europea, se la si confronta con lo tsunami inglese di oggi, rimase un evento marginale.
Tuttavia, proprio come nel caso britannico, la decisione venne presa in seguito a un referendum indetto fra gli abitanti dell’isola più grande del mondo (meno di 60mila, politicamente autonomi nell’ambito del regno danese ma dipendenti sotto l’aspetto economico). Passò nel 1982 di stretta misura, con il 53 per cento dei voti, e venne gestita successivamente dal governo di Copenhagen con esemplare rispetto della volontà popolare. Tuttavia, allora come adesso, furono necessari complessi negoziati e la resistenza di Bruxelles fu tenace, forse perché i sostenitori della ideologia europeista intuirono già allora la pericolosità del precedente. Oltre a minare il concetto di irreversibilità della unificazione (già scalfito nel 1962 con l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia) esso sottolineava le potenzialità dirompenti della democrazia diretta (oggi attualissime, cominciando dalla Catalogna). Inoltre metteva in discussione il concetto stesso geografico di Europa. Poteva considerarsi tale un’isola che appartiene alla piattaforma continentale americana, con popolazione in maggioranza eschimese e una economia allora basata quasi interamente sulla pesca, e dunque non in grado di reggere l’urto del mercato comune?
La questione venne risolta lontano dai riflettori, classificando la Groenlandia, secondo il Trattato del 1984, come “Paese d’Oltremare” associato, barattando un parziale accesso ai diritti di pesca con stanziamenti fissi di fondi (oggi oltre 20 milioni di euro per il periodo 2016-20, a carico degli ignari contribuenti europei). I rappresentanti groenlandesi fecero fagotto, e tutto sembrò finire nel dimenticatoio.
Eppure qualche domanda da allora rimane in sospeso. Per cominciare: che cos’è l’Europa e fin dove arrivano i suoi confini? Geograficamente è un’entità astratta, semplice propaggine dell’unico continente euroasiatico. Ammettere Malta (posta esattamente a metà fra Italia e Africa) e Cipro (senza dubbio parte della piattaforma asiatica), per non parlare in futuro di Turchia, Georgia o Azerbaigian, se non addirittura di Israele (vecchia utopia dei radicali italiani) significa riconoscere che l’europeità non dipende dalla geografia. Sono allora etnie e valori culturali che contano, includendo così la religione? Altro terreno minato. E se invece decide l’economia, come evitare che le disparità nello sviluppo – tipico il caso della Groenlandia – impongano una rete di facilitazioni, sovvenzioni, accordi separati, destinati a prolungarsi indefinitamente nel tempo, favorendo sprechi e corruzione, e in definitiva minando il principio stesso di libero mercato?
Dubbi validi ancor oggi, a rafforzare l’ipotesi di una riforma radicale della Ue in direzione confederale. Il che potrebbe voler dire un passo indietro: coordinamento della politiche estere e del mercato interno, ma senza direttori e decisioni a maggioranza. Con però una forte cornice ideale comune, basata sulla solidarietà fra le democrazie occidentali. Del resto, quel fattore politico – allora in chiave antisovietica – fu la molla che spinse i Paesi europei ad associarsi. L’ascesa delle dittature regionali e globali, con sintomi di guerra semi fredda, indica probabilmente un percorso necessario.
di Dario Fertilio