L’hanno chiamata “eccezione culturale”, ma il suo vero nome è “protezionismo”. Dietro la parola in neolingua politichese, coniata dal governo di Francia, c’è soltanto il tentativo di escludere la libera circolazione di “cinema e audiovisivi” dall’accordo commerciale fra Unione Europea e Stati Uniti, che dovrebbe portare alla liberalizzazione dei mercati.
Naturalmente la bella pensata linguistica della “eccezione culturale” serve soprattutto allo sciovinismo gallico per scongiurare l’invasione di film, serial tv e video fabbricati in America nell’odiata lingua inglese, la quale lascerebbe soltanto le briciole alla francese. Gli altri europei, fra cui la solita ondivaga Italia con il suo governo politicamente ultra corretto, si sono accodati, giacché la diga protezionistica sulla cultura in fondo fa piacere a tutti, salvaguarda persino l’asfittica produzione Rai o Mediaset nella bistrattata lingua italiana. Certo, gli altri membri della Ue avrebbero preferito porre la questione della “eccezione culturale” alla fine delle trattative con gli Usa, per evitare di irritare il Grande Fratello già in partenza, provocando pericolose ritorsioni in altri settori sensibili come i trasporti o la produzione degli Organismi geneticamente modificati. Ma, visto che la Francia ha fatto la voce grossa, si sono accodati.
Fin qui, comunque, il neoprotezionismo franco-europeo potrebbe anche sembrare una legittima difesa contro l’invasiva aggressione audio visuale del gigantesco mercato americano.
A guardar meglio, però, nel ragionamento si aprono falle vistose.
Anzitutto, non si capisce perché nella Ue gli aiuti di Stato fuori dalla logica di mercato dovrebbero riguardare soltanto cinema e tv e non, ad esempio, anche il teatro, la musica o l’editoria.
Ma soprattutto la questione mette a nudo il ritardo politico e culturale della Ue in campo culturale. Perché mai si dovrebbe ricorrere al protezionismo, anziché incentivare la cultura dei vari Stati europei con una politica capace di tener conto dei valori di mercato? Perché mai i contribuenti italiani, francesi o danesi dovrebbero partecipare alle spese per un brutto film, rifiutandone uno bello ma americano? L’importante sarebbe invece sostenere i migliori prodotti culturali nazionali (includendo tutti i principali settori, dal libro alla danza) introducendo il principio dei “matching grants”, ovvero la regola secondo la quale possa usufruire di un contributo pubblico soltanto chi ne abbia già ottenuto uno superiore (tre, quattro o cinque volte tanto) attraverso sponsorizzazioni private.
Il guaio è che questa regola, capace di conciliare libero mercato e sostegno pubblico, è nata in America, e dunque, agli occhi della statalista Ue, puzza di zolfo liberista.
Questa, insomma, è il vero zoccolo duro della Unione Europea, fuori dalla retorica e dalle idealizzazioni di comodo: un cartello protezionistico all’insegna di vecchie, decrepite, inconfessabili regole corporative.
Gaston Beuk