L’Italia, nel suo piccolo, ha sempre avuto una precisa politica estera: ma adesso?
Tra i molti e seri problemi incombenti, l’Italia ne ha uno davvero grave e assillante, anche se generalmente eluso: l’“evanescenza” del titolare del ministero degli Esteri, Angelino Alfano. Ogni Stato si fonda sul suo Capo (monarca o presidente che sia) e su due pilastri portanti: la politica estera e le forze armate, che ne costituiscono la proiezione, difensiva o, quando necessario, offensiva. La condizione attuale dell’Italia è nuova e paradossale.
Il 6 dicembre 2017, ormai due mesi orsono, Alfano annunciò che non si sarebbe candidato alle prossime elezioni. Aggiunse che “si può fare politica anche fuori dal palazzo”. Verissimo. A (o dal) Palazzo si possono fare molte cose. Alcune strane, come il “sequestro” di Alma Shalabayeva. Questione ancora aperta, avvenne quando Alfano era ministro dell’Interno. A (o dal) Palazzo si può non sapere che parenti stretti assumono impieghi e cariche ben remunerate. E talora a (o dal) Palazzo accade di trascurare, per stanchezza, delusione o distrazione, gli obblighi elementari del Ministero.
In Italia gli Esteri hanno avuto un profilo oggettivamente minore dalla Guerra Fredda alla dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss), quasi trent’anni addietro. Inserita nella Nato (per iniziativa di Randolfo Pacciardi, apprezzato anche da Vittorio Emanuele III, ancor più che di Alcide De Gasperi, sensibile all’antiamericanismo di ambienti della Curia romana) e col problema interno non indifferente di un partito comunista che agognava l’arrivo dell’Armata Rossa (e votò a favore dei carri armati a Budapest nel 1956: lo fece anche Giorgio Napolitano), l’Italia recuperò quanto possibile la missione storica assegnatagli dalla geopolitica. Per esempio Enrico Mattei (studiato a fondo da Nico Perrone) aveva alle spalle Vittorio Emanuele II, che conferì il Collare della Santissima Annunziata a Mirza Hussein, ministro degli Affari Esteri dello scià di Persia, a Mehemed-Tewfik, poi Kedivè d’Egitto, e a Youssouf Izzedin, principe di Turchia. Altrettanto fecero Umberto I e Vittorio Emanuele III. La politica di Roma verso l’Oriente (dal Vicino all’Estremo) non è una scoperta recente. Nel 1900 l’Italia partecipò alla spedizione delle Sette Potenze per annientare la rivolta dei boxer in Cina e ne trasse la concessione di Tien-Tsin: poco, ma meglio di niente. Non era “Italietta”, bensì un Paese vigile sullo scenario di lì a poco segnato dalla guerra russo-giapponese (1905), che ebbe epicentro nell’assedio di Port-Arthur, in Corea, terra da secoli teatro di conflitti nippo-cinesi. La politica estera di Gaetano Martino (verso l’Europa carolingia), di Aldo Moro, Giulio Andreotti e di Bettino Craxi (dai Luoghi Santi alla Cina) sono segmenti di una linea che arriva dalle origini stesse della Nuova Italia: un Paese unificato da una dirigenza che aveva chiara la marginalità e il fallimento storico degli staterelli (Ducati padani, Granducato di Toscana, Legazioni pontificie), dello Stato della Chiesa e del regno delle Due Sicilie.
Con buona pace dei professionisti del neoborbonismo e dei loro fatui caudatari, quest’ultimo non aveva colto la portata epocale dell’apertura del Canale di Suez, delle ferrovie e del passaggio dalle navi a vela (in cui primeggiava) a quelle a vapore. Il Regno di Sardegna stravinse e guidò l’unificazione non per protervia dei generali sabaudi (inclusi quelli non piemontesi: è il caso di Enrico Cialdini, il Generale di ferro, ottimamente biografato da Roberto Vaccari (ed. Elis Colombini) ma per la lungimiranza di Carlo Alberto di Savoia (che aprì sedi diplomatiche nei luoghi più remoti) e del Padre della Patria, che ne continuò e rafforzò la visione extraeuropea della Terza Italia.
In età monarchica la politica estera italiana ebbe interpreti in statisti della levatura di Camillo Cavour, Emilio Visconti-Venosta (da mazziniano divenuto fervido assertore di Casa Savoia), Francesco Crispi, Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano (normanno di Sicilia), Raffaele Guariglia (prestigioso diplomatico di lungo corso, il 25 luglio 1943 chiamato a Roma dalla Turchia, ove era ambasciatore, per riportare l’Italia a Occidente), Alcide De Gasperi (agli Esteri dal 12 dicembre 1944 al 18 ottobre 1946, come documentano i Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati da Aldo G. Ricci). Nell’età repubblicana l’Italia ebbe alla Farnesina De Gasperi stesso, Giuseppe Pella, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Aldo Moro e, per breve stagione, Pietro Nenni. Furono decenni di riposizionamento dell’Italia nel passaggio dl bipolarismo al tripolarismo, propiziato da Arthur Kissinger, a suo modo auspicato da Antonio Giolitti e di quanti guardavano ai “neutrali” per uscire dalla moltiplicazione delle potenze nucleari (dalla Gran Bretagna alla Francia di De Gaulle, propugnatore della “force de frappe”, perché solo la deterrenza dissuade il nemico da aggressioni sconsiderate).
Come in un’Italia così ricca di talenti Angelino Alfano sia asceso a ministro degli Esteri si spiega solo con le “ricette del venerdì di quaresima” invalse nella formazione di governi composti di vassalli, valvassori e valvassini dal seguito raccogliticcio, pronti a trasferire le proprie sbarrate insegne dall’uno all’altro campo.
Il punto è che dall’ormai remoto 6 dicembre 2017 l’Italia ha un ministro degli Esteri diafano. Nei fatti a gestire la politica estera sono il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni Sivieri, già titolare della Farnesina, e, per alcune partite nevralgiche (come quella “libica”) il ministro dell’Interno, Minniti, e, in second’ordine, quello della Difesa, Pinotti, in specie per quanto concerne le missioni militari all’estero, dai profili sempre più intricati (è il caso del Niger), e comunque potenzialmente esplosivi (come in Libano).
La Carta costituzionale è molto sobria sulla figura dei ministri, nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, a sua volta investito dal Capo dello Stato (art. 92). In linea con il Regio Decreto di Vittorio Emanuele III (14 novembre 1901, Governo Zanardelli-Giolitti), il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene la unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” che sono “responsabili collegialmente degli atti del Consiglio e individualmente degli atti dei loro dicasteri” (art. 95).
Due mesi dopo l’uscita di Alfano dalla scena politica (ma non dal governo) alcune domande attendono risposta urgente. Prima di dichiarare che non si sarebbe ricandidato e che non avrebbe assunto ministeri in un successivo governo (bontà sua, quasi la nomina a ministro dipenda da chi “s’offre” o addirittura “pretende”: è il caso patetico di Luigi Di Maio, un Carles Puigdemont all’italiana, che non ha mai letto la Costituzione), Alfano fece il diavolo a quattro per garantire al suo micropartito un numero di seggi sufficiente a condizionare qualunque governo venturo. Vistasi chiusa in faccia la porta da Renzi e scelta (non per vocazione) la strada dell’ astinenza, per coerenza avrebbe dovuto dimettersi illico et immediate dalla carica poi di fatto disertata, quasi gli Esteri siano una sinecura, mentre l’Europa è alle prese con partite vitali, dalla attuazione della Brexit al superamento della tensione tra Usa e Russia, con le note complesse ricadute militari ed economiche.
Lo storico futuro avrà da dipanare una matassa intricata quando affronterà questo caso, che mette a nudo la gracilità del regime costituzionale vigente, propizio a rinviare decisioni importanti per non infrangere equilibri instabili. La sostituzione di Enrico Costa da ministro per gli Affari regionali non fu un dramma perché, dopo tutto, le competenze del suo dicastero non erano di primaria grandezza. Altrettanto avvenne per viceministri e sottosegretari nei recenti governi. Ma gli Esteri? Sono caposaldo nevralgico dello Stato. La sostituzione di Alfano avrebbe certo comportato un regolamento di conti politici che né Gentiloni né Renzi erano in grado di affrontare. Così rimase dov’era. A fare che cosa? Una ferita troppo a lungo aperta può degenerare in cancrena. Nessuno dice (o sa dire) quando questa verrà sanata. Infatti, salvo eventi straordinari, Alfano potrebbe restare in carica non solo sino alle elezioni del 4 marzo, ma fino alla formazione di un nuovo governo: un appuntamento dalla data imprevedibile. E se, per tanti e comprensibili motivi che lasciamo tra parentesi, Gentiloni dovesse durare sino all’autunno, se non oltre, quando effettivamente Alfano decadrebbe da titolare degli Esteri? Sotto il profilo strettamente istituzionale non si intravvede né il momento né il “motivo” della sua decadenza, perché per sedere al governo non è affatto necessario essere parlamentare. La storia d’Italia è punteggiata dal rinvio di decisioni, per le ragioni più disparate. A volte è saggio, a volte no. Di sicuro gli Esteri non possono rimanere come sono. Non è un problema di coalizioni, di partiti. E’ una questione di Stato, cioè di serietà.
Perciò è lecito attendersi che, di sua scelta o… “spintaneamente” Alfano sciolga il nodo e lasci la Farnesina, affinché il governo torni nella pienezza della sua configurazione e dell’esercizio dei poteri da parte dei titolari dei ministeri chiave. Ad Alfano, del resto, non mancheranno altre occupazioni (e preoccupazioni). “I ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria” (art. 96).
di Aldo A. Mola