QUANDO GIULIO ANDREOTTI TRADI’ SALVO LIMA

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“Giulio Andreotti è stato il vero – e mai risolto – mistero della Prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco…”.
Eugenio Scalfari, “La leggenda di Belzebù” 7 maggio 2013 –
Genio del giornalismo, Scalfari fu amico di Francesco Cossiga ininterrottamente dal
1978 al 1990 (raccogliendone le confidenze scabrose su Steve Pieczenick e Aldo Moro).
Ipomaniacale il primo, bipolare il secondo

“Com’era arrabbiato Scalfari con Andreotti!”
Mauro Siri, psicanalista bar Mangini Genova maggio 2013

“Dall’interno è tutto normale”
Maurizio Raggio a Bettina Ottone

Si vis pacem, para bellum.
In occasione del 30esimo della strage di Capaci nella quale morirono Giovanni Falcone e gli agenti della scorta con la moglie Francesca Morvillo, è bene ribadire che il contadino Totò Riina – ignorantissimo, a differenza del “principe di Villagrazia” Stefano Bontate che è stato fotografato alla perfezione da Angelo Siino con faccia di Charles Bronson nel “falso verosimile”: sembrare colto, senza esserlo – fece politica, colpendo stragisticamente l’allora direttore penale del Ministero di Grazia e Giustizia: il risultato della strage, più colombiana che siciliana – come osservò molto lucidamente Claudio Martelli – fu quello di impedire sul nascere l’elezione al Quirinale del nuovo capo dello Stato, stroncando sine die l’ambizione dello spericolato Giulio Andreotti di mettere piede nel posto più ambito d’Italia: è impossibile che Salvatore Riina avesse fatto in maniera autonoma questa valutazione nel suo profilo “extraneus” tout court a considerazioni politiche, ma qualcuno dall’esterno a Cosa Nostra suggerì al capo della Commissione regionale di Palermo di fare un “coup de théàtre” di questo livello per distruggere politicamente il Divo Giulio: chi scrive crede che sia stato Licio Gelli, che era il referente politico-finanziario dei Corleonesi, il mistero fatto in persona. Gelli insieme a un altro.
Non dimentichiamoci che è un fatto certo il coinvolgimento occulto del Venerabile Gran Maestro della “Propaganda 2” nel dark inside dell’avviso di garanzia recapitato all’allora Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli per concorso in bancarotta fraudolenta nel Banco Ambrosiano, costretto a dimettersi il 10 febbraio 1993 e sostituito dall’accademico Giovanni Conso, che cedette sul 41-bis: forse, è il caso di aggiungere che portare al cosiddetto “punto di equilibrio” l’obbligatorietà dell’azione penale è un fanatismo che si risolve nel rovesciamento della sicurezza nazionale e della politica giudiziaria dello Stato, e politicizzando l’ordine giurisdizionale con una revisione dell’art. 112 Cost. si protegge la Repubblica, anche se “l’intransigenza etica” dei
Davigo respinge senza se e senza ma tale opzione.
Ma andiamo indietro a 2 mesi prima della strage di Capaci del 23 maggio 1992: viene assassinato l’ex sottosegretario alle Finanze Salvo Lima per le strade di Mondello, in un agguato la cui modalità spaventò lo stesso Vito Ciancimino: “il più mafioso dei politici, e il più intelligente dei mafiosi” come ebbe a dire Giovanni Falcone. Orbene, Lima era certo che le istruttorie del maxiprocesso sarebbero state smantellate e Riina avrebbe incassato la vittoria dell’assoluzione in Cassazione. Ma non era matto, Lima.
Scrive Massimo Canuti nel bellissimo libro “L’agguato di Capaci” per La Gazzetta dello Sport: “NORD E SUD, UNA COPPIA IN CRISI – “Povera patria/ schiacciata dagli abusi di potere/ di gente infame, che non sa cos’è il pudore… Non cambierà, non cambierà/ si che cambierà…” cantava, nel 1991, Franco Battiato. Con l’anno nuovo, però, le cose sembrava davvero che potessero cambiare. In meglio, per di più.
E’ il 30 gennaio 1992, giorno della sentenza del Maxiprocesso. La Corte di Cassazione – l’organo al quale spetta l’ultima parola sui processi – si pronuncia: diversamente da come molti si aspettavano, i giudici con a capo Arnaldo Valente ribaltano la sentenza di Appello che aveva diminuito ergastoli e accuse e confermato il provvedimento di primo grado, che diventa perciò definitivo. Cosa Nostra viene finalmente trattata per quella che è: un’organizzazione criminale, con
tanto di organo dirigenziale.
Le rivelazioni dei pentiti sono quindi considerate attendibili: il cosiddetto metodo Falcone, contestato (talvolta perfino osteggiato) da gran parte degli addetti ai lavori, dà prova di funzionare alla grande.
Un bel colpo, per il capo di Cosa Nostra Salvatore Riina. Si è dato un gran da fare, in questi ultimi mesi. Ha stretto alleanze in Calabria e in Campania, esteso i suoi contatti fino agli Stati Uniti. E’ evidente, qualcuno lo ha tradito. Già, ma chi?
La risposta la conosce già: Salvo Lima.
Ci aveva parlato pochi giorni prima. Gli aveva assicurato che tutto sarebbe andato liscio, che non ci sarebbe stata alcuna sorpresa. Gliel’aveva dato per certo. E invece…”.

E invece Andreotti fece una mossa a sorpresa, sostituendo all’ultimo momento l’“ammazzasentenze” Corrado Carnevale con Arnaldo Valente con un’ingerenza senza precedenti del potere politico nell’autonomia dell’ordine giurisdizionale.
La poteva pagare a prezzo altissimo.
Infatti Riina diede a Matteo Messina Denaro l’ordine di sequestrare i figli di Andreotti come punizione del tradimento.
Eh sì, avete capito bene: il tradimento degli accordi presi con l’incontro il 20 ottobre del 1987 nell’abitazione di Ignazio Salvo alla Casa del Sole a Palermo, agli arresti domiciliari: presenti Andreotti, Salvo, Lima e Totò Riina più Paolo Rabito, e Balduccio Di Maggio (l’autista del “capo dei capi”).
Erano due gli autisti del boss: Di Maggio e Salvatore Biondino.
Icarus, ascesa e caduta del Divo.

Il suddetto incontro non è provato dal punto di vista processuale, ma è – a parere di chi scrive, nell’analisi dei materiali giudiziari – storicamente accertato.
Così come è un fatto storicamente accertato che lo stesso Andreotti era uno psicopatico, come ho già avuto modo di dire, e di spiegare nella ricostruzione psicobiografica del Divo per Libertates: “Giulio Andreotti, una passione per tutta la vita: salvare i delinquenti. Ma alla fine cambiò”.
Molto sospetto è come lo stesso Giulio si autoassolse nel libro “Cosa Loro – Mai visti da vicino”: come scrittore, il Gobbo era mediocre. Ma era uomo d’azione, più che di intelletto.
L’incontro tra Giulio e Riina è quasi certo, come scrive Guido Lo Forte nel libro “La verità sul processo Andreotti” scritto a quattro mani con Giancarlo Caselli (il quale ha una vera e propria ossessione monomaniaca per Andreotti che è un disturbo clinico): “… sarà opportuno ricordare qual era stata la storia processuale di (Baldassarre, ndr) Di Maggio. Arrestato dai Carabinieri di Novara l’8 gennaio 1993 per detenzione di armi, Di Maggio inizia subito a collaborare con la giustizia (sebbene in quel periodo non fosse destinatario di alcun provvedimento restrittivo e non andasse, quindi, incontro a conseguenze penali di particolare rilievo). Confessa di essere “uomo d’onore”, personalmente combinato da Bernardo Brusca (esponente storico di Cosa Nostra, da sempre legatissimo a Salvatore Riina). Ammette inoltre di avere, negli anni precedenti, ricoperto, un ruolo criminale attivo e rilevante nell’ambito della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, quale reggente del mandamento dopo l’arresto di Bernardo Brusca nel 1985.
Trasferito a Palermo dopo l’arresto, contribuisce in modo decisivo alla cattura di Totò Riina, di cui era stato fidato autista.
E’ anche con il suo aiuto che il “capo dei capi” viene catturato il 15 gennaio 1993, dopo ventiquattro anni di latitanza. Con le sue rivelazioni, inoltre, Di Maggio è alla base del processo contro Giuseppe Agrigento e altri sessanta imputati, che consente lo smantellamento della potente e
sanguinaria mafia del mandamento di San Giuseppe Jato, dominata dalla famiglia Brusca, fedelissima di Totò Riina, e responsabile di numerosissimi omicidi commessi nel decennio che va dal 1981 al 1989.
E arriviamo a uno snodo importante, che per le sue conseguenze non può essere rubricato a semplice nota di colore. Il 16 aprile 1993 Di Maggio riferisce spontaneamente (alla presenza del difensore e di altri tre magistrati) che aveva accompagnato in veste di autista Totò Riina a un incontro avvenuto nell’abitazione palermitana di Ignazio Salvo. A questo incontro avevano partecipato il senatore Andreotti e l’onorevole Lima, oltre a un mafioso di nome Paolo Rabito, della famiglia di Salemi. Nella circostanza – ricordava Di Maggio – Riina e Andreotti si erano salutati con un bacio sulla guancia.
E’ a partire da questa rivelazione che le acque si intorbidano. Il fatto che Di Maggio abbia contribuito all’arresto del superlatitante Riina e al crollo verticale della cosca di San Giuseppe Jato (dando il via a un effetto “domino” di straordinaria importanza) non conta più nulla. Il “bacio” scatena infatti i complottisti.
Si parla di baggianata cui solo dei gonzi come coloro che ipotizzano la mafiosità di Andreotti possono credere…
Peraltro, la sentenza “assolutoria” del Tribunale non accusa Di Maggio di aver mentito inventandosi l’incontro col “bacio”; non esclude la possibilità che esso sia avvenuto, anche se pone un problema di date e alla fine ritiene il “compendio accusatorio incompleto e contraddittorio”.
E tuttavia Di Maggio – proprio per la storia del bacio – viene lapidato senza risparmio…”.

Ma forse c’è stato un tentativo di “corruzione in atti giudiziari” da parte dell’entourage del Divo: “… Ma potrebbe esserci ben di più. Una luce sinistra sulla vicenda scaturisce da alcune dichiarazioni dello stesso Di Maggio. Là dove egli ha ammesso – anche nei dibattimenti svoltisi a Palermo (processo Andreotti, udienze del 27 e del 28 gennaio 1998) e a Perugia (processo Pecorelli, udienza del 13 febbraio 1998) – di aver ricevuto promesse di ingenti somme di denaro e larvate minacce affinchè ritrattasse le sue dichiarazioni nel processo Andreotti, e rivolgesse false accuse alla Procura di Palermo, nell’ambito di una strategia intesa a destabilizzare i processi di mafia.
Ciò che potrebbe persino aprire (nell’Italia dei tanti misteri) qualche fuori scena inquietante…”.

La corruzione in atti giudiziari, oggettivamente è stata messa in atto anche con l’ex spione del Sismi Francesco Pazienza prima della sua deposizione a Palermo nel processo per associazione mafiosa, che è reo confesso: secondo Pazienza, nel 1980 ebbe un incontro kafkiano su mandato del direttore del Sismi Giuseppe Santovito con Andreotti nel suo ufficio a Montecitorio, nel corso del quale il politico democristiano gli avrebbe chiesto se era possibile eliminare l’avvocato Rodolfo Guzzi, già difensore di Michele Sindona.
E’ ineccepibile la ricostruzione storica di Peter Gomez sul punto, giornalista di grandi risorse:
“… Per sei anni i vertici di Cosa nostra sono rimasti convinti che Lima e i Salvo, tramite Andreotti e Carnevale, sarebbero riusciti ad “aggiustare” il maxiprocesso in Cassazione. Poi qualcosa andò storto: Falcone, dal ministero (di Grazia e Giustizia con l’appoggio diretto del Ministro Claudio Martelli e del Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti che teneva informato il capo dello Stato Francesco Cossiga, ndr), indusse il primo presidente dell’Alta corte a sostituire il giudice designato da Carnevale per presiedere il collegio giudicante e far annullare le condanne. Una mossa a sorpresa. E le condanne furono confermate. Subito dopo si scatenò l’ira di Riina contro i “traditori”: Lima assassinato, Ignazio Salvo assassinato, Andreotti e i suoi figli nel mirino…”.
E qui, entriamo nel campo delle ipotesi che attengono alla difficile interpretazione della psiche umana: perché l’uomo dei misteri, prima avrebbe dato personalmente assicurazione al “capo dei capi” in una conversazione di ben tre ore e mezza dell’assoluzione sua e dei suoi uomini, e poi lo avrebbe colpito alle spalle?
Come disse qualche anno fa Claudio Martelli, “credo che volesse recidere certi legami”: era vero anche dello stesso Martelli.
Il Gobbo si sentiva soverchiato dall’ingombrante presenza del “mondo di mezzo” nella sua vita, ed era quasi negli stessi stati d’animo di Aldo Moro detenuto dalle Br, quando prima dovette subire passivamente l’arroganza di Stefano Bontate a Palermo chiedendogli conto dell’assassinio di Piersanti Mattarella (fu un trauma per Andreotti la morte del presidente della Regione siciliana il 6 gennaio del 1980: Piersanti aveva tradito gli accordi presi con il gruppo Bontate-Inzerillo) e poi accettare i diktat di Totò u Curto: aveva la possibilità per la prima volta, di fare qualcosa di buono passando dalla parte della legalità.
Andreotti era “uomo d’onore”? Si chiede Massimo Canuti nel suo libro.
Probabilmente sì, ma uomo d’onore “pentito” per la precisione.
A lasciarci le penne è stato Lima, uomo di una ingenuità singolare e poi l’esattore Ignazio Salvo, che al maxiprocesso diede prova di un discreto sense of homour.
Ma – a giudicare dai fatti – a Giulio è andata abbastanza bene.
L’alternativa alla strage di Capaci era il rapimento di suo figlio Stefano da parte dei predatori di Matteo Messina Denaro, oggi protetto dalla ’ndrangheta calabrese.
Il più grande giocatore d’azzardo nella storia d’Italia dopo Benito Mussolini.
Entrambi scrittori mediocri.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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