Ripensando quarant’anni dopo al dibattito del 1975 sull’Intervista sul fascismo rilasciata da De Felice
“La pugnalata dello storico”, forse il titolo dell’articolo con cui Nicola Tranfaglia, sul ‘Giorno’ del 6 luglio 1975, apriva le ostilità contro l’Intervista sul fascismo rilasciata da Renzo De Felice a Michael A. Ledeen (Ed. Laterza) era redazionale. Certo è che il giudizio dello studioso di Carlo Rosselli era una vera e propria fatwa antifascista. ” Ci troviamo per la prima volta -scriveva – in maniera chiara e univoca dopo il 1945 di fronte a una completa riabilitazione del fascismo compiuta da uno storico che non è di origine fascista, che occupa una cattedra nell’Università di Roma, che pubblica i suoi libri presso due tra le maggiori case editrici della sinistra (Einaudi e Laterza)”. Si trattava, a detta di Tranfaglia, di una riabilitazione che non poggiava su “prove storiche attendibili” e che, in definitiva, si risolveva in una operazione politica che con la storiografia aveva “assai poco a che fare”.
Non meno severa la condanna di un tipico esponente della sinistra del PRI, nostalgico di Parri e del Partito d’Azione, Giovanni Ferrara. Il fascismo? C’è il rischio di ‘capirlo’ troppo, era il titolo del suo articolo apparso sempre sul ‘Giorno’ del l8 luglio. Lo storico romanista non considerava fascista la posizione di De Felice ma definiva la sua imponente ricerca “un monumento storiografico al fascismo”. “Il nostro rapporto col fascismo, se deve essere onesto e autentico, è un rapporto intimamente polemico”, un’”antitesi ideale”, quella che faceva dire a Federico Chabod che non avrebbe mai potuto scrivere la storia di un regime ‘disgustoso’. In realtà, non era stato Chabod – che, nelle lezioni alla Sorbona, raccolte nell’aureo volumetto L’Italia contemporanea (1918-1948), Ed. Einaudi 1961, di fascismo si era occupato da par suo – a esprimersi in quel modo indegno del grandissimo storico quale egli era ma, semmai, Benedetto Croce sistematicamente equivocato da quanti avrebbero preso parte al dibattito, schierandosi con Ferrara e con Tranfaglia. In realtà, il filosofo, dichiarò in uno dei suoi scritti più memorabili, Storiografia e idealità morale. Conferenze agli alunni dell’Istituto per gli Studi Storici, Ed. Laterza 1950 – di non aver scritto una storia del fascismo “perché il compito che mi toccò allora fu di non fare la storia del regime fascistico ma di aborrirlo”, ma aggiungendo “pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili”.
E non era questo un programma ‘revisionista’ se si pensa al quadro del ventennio “tutto in nero, tutto vergogne ed errori”, quale emergeva negli articoli antidefeliciani di Claudio Pavone, di Franco Ferrarotti, di Enzo Santarelli, di Lelio Basso, di Giuseppe Pedercini, di Roberto Vivarelli? La stessa pattuglia dei critici più equanimi – Leo Valiani, Gaetano Arfè, Claudio Signorile, Franco Gaeta, Arrigo Benedetti, Adrian Lyttelton, Luigi Firpo – contestava, spesso duramente, a De Felice questo o quel punto qualificante della sua Intervista, accusandolo, nel caso di Valiani, di aver dato di Mussolini una “immagine simpatica e benevole non abbastanza critica nei confronti degli adulatori del tempo”. Curiosamente Valiani rimproverava all’amico De Felice di aver letto superficialmente lo storico israeliano Jakob Talmon, che aveva coniato, sì, l’espressione democrazia totalitaria applicandola dapprima al giaconinismo, ma “che del fascismo nei suoi libri non si occupa”. E di cos’altro trattava il grosso volume The Myth of the Nation and the Vision of Revolution (London 1981) in cui venivano messi a fuoco i movimenti politici e le correnti di pensiero che avevano tragicamente segnato il XX secolo?
Va detto che a riportare la polemica su De Felice su binari più critici e sereni fu, con grande sollievo di Vito Laterza, un politico comunista di elevata cifra intellettuale, Giorgio Amendola. Nel suo editoriale (sic!) del 20 luglio, sull’’Unità’, Per una storia dell’antifascismo, Amendola tornava anche lui sulla ‘ripugnanza’ di Benedetto Croce, ma per rilevarne l’insostenibilità: “non è possibile”, faceva rilevare, “considerare come sempre valida questa discutibile posizione personale”.E proseguiva.”Non si possono cancellare venti anni della storia d’Italia. Non fare la storia del fascismo significa condannarsi a non comprendere le ragioni dell’avvento e della durata del fascismo e la natura della pesante eredità che esso ha lasciato e che ancora oggi avvelena la vita del popolo italiano”.
A scandalizzare i maitres-à-penser della vulgata antifascista erano, soprattutto, sette tesi, richiamate nell’Intervista, che erano il filo conduttore dei volumi della biografia mussoliniana che veniva pubblicando l’editore Einaudi.
- Il fascismo è stato a suo modo un fenomeno rivoluzionario e non la guardia armata del capitalismo industriale e agrario;
- All’interno del fascismo, vanno distinti il “fascismo movimento”, che conservava le idealità rivoluzionarie del Programma di San Sepolcro del 1919 e il “fascismo regime”, sovrastruttura di una linea statalista e continuista dell’Italia umbertina e giolittiana;
- Il fascismo si configurò soprattutto come tentativo dei ceti medi emergenti, grazie alla guerra mondiale,di porsi come nuova classe dirigente;
- il fascismo, almeno dal 1929 al 1936,godette di un largo consenso di massa;
- il fascismo è caduto solo perché ha perso la guerra con la disastrosa alleanza con la Germania nazista;
- il fascismo è altra cosa dal nazismo: il primo è un figlio spurio dell’illuminismo e della rivoluzione francese, il secondo è l’espressione di un’etica tribale e regressiva, che non vuole formare l’uomo nuovo’ma riportare alla luce l’uomo antico ariano, che il cristianesimo e la civiltà dei lumi hanno tentato di corrompere:
- il neofascismo alla destra del MSI non ha nulla da spartire col fascismo storico e, semmai, nutre nostalgie neo-naziste.
Gli avversari e i critici di De Felice si sono affannati a demolire questa impalcatura teorica: il fascismo si affermò proprio grazie alla violenza con cui aveva represso l’ascesa politica e sociale del proletariato, la sua pretesa ‘rivoluzione’ era sovversione di ceti piccolo-borghesi confusi, velleitari e anarcoidi; il ‘fascismo movimento’, se pur c’è stato, non ha avuto alcuna incidenza sulle dinamiche del regime; i ceti medi emergenti sono un’invenzione di De Felice: aveva ragione Luigi Salvatorelli quando parlava invece di “rivolta piccolo borghese attraverso i suoi figli “spostati”; il consenso di massa per Mussolini confonde la partecipazione libera e responsabile con la mobilitazione emotiva e coatta; il fascismo, come il nazismo, è anti-illuminismo radicale e le differenze tra i due regimi sono attribuibili ai diversi contesti storici e nazionali: la nuova destra italiana è l’erede legittima sia del fascismo nazionalista e badogliano sia del fascismo repubblichino.
Va detto che i critici seri non erano tutti concordi tra loro e su questioni non secondarie. Giorgio Bocca che, con Ugoberto Alfassio-Grimaldi, leggeva con grande attenzione gli scritti di De Felice, ad esempio, scriveva il 27 luglio sul ‘Giorno’, Parla uno che c’era, di non capire perché “gli storici della sinistra da Basso a Tranfaglia, insistano a negare o a minimizzare gli aspetti di mutamento del fascismo e il suo consenso di massa” e, quanto al ceto emergente, faceva rilevare che esso c’era eccome:”guidato dai piccoli e medio borghesi che nella guerra mondiale di massa avevano avuto una grossa funzione dirigente sia come ufficiali di complemento sia come quadri della produzione industriale”. E non meno significativo era il rilievo di Enzo Forcella sul ‘Mondo del 31 luglio,Non merita tanto rumore il libretto di De Felice, che riteneva il concetto talmoniano di democrazia totalitaria tutt’altro che inservibile per comprendere il fascismo.”Perché si ha un bel dire che il vero consenso comporta la partecipazione attiva, cosciente, autonoma dei cittadini. A misurarlo su questo metro di giudizio dovremmo dire che i nove decimi di tutto il consenso che il potere raccoglie nel mondo è un consenso estorto e manipolato”.
Con De Felice si schierarono certo anche storici e filosofi prestigiosi – come Rosario Romeo, Nicola Matteucci, Piero Melograni, Ruggero Moscati, Domenico Settembrini, Augusto Del Noce, per limitarci a questi – ma, riletto oggi, il dibattito sull’Intervista ci ricorda malinconicamente che la cultura italiana non è cambiata sostanzialmente dal 1975. Luigi Firpo, concludeva il suo articolo sulla ‘Stampa’ del 18 luglio, Ristudiando il fascismo, con una citazione di De Felice: “Il fascismo ha fatto infiniti danni ma uno dei danni più grossi è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive… una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell’avversario per distruggerlo”. “E’ probabile”, commentava l’indimenticabile storico torinese “che su più di un punto De Felice abbia torto, ma su questo -purtroppo – ha ragione”.
Dino Cofrancesco