Di fronte alla crisi, alle volte, sembre quasi meglio tornare indietro al vecchio, caro statalismo…
Come molti, ero partito da una iniziale diffidenza nei confronti di Matteo Renzi, poi mutatasi in cauto consenso, per apprezzamento del suo indubbio decisionismo, manifestatosi molto bene nella soppressione del senato e nel piglio aggressivo con cui sta conducendo pure la riforma della legge elettorale. Ma non mi sono caduti i dubbi residui in relazione al Jobs Act, ovvero mi chiedo anch’io se un impianto del genere non significhi davvero un congedo dalla sinistra. Non suscita il mio dubbio la famigerata questione attorno all’articolo 18, infatti devo dire che i medesimi dubbi suscitatimi dall’azione renziana accompagnano anche l’atteggiamento opposto dei sindacati, in un caso e nell’altro mi sembra che si faccia troppo credito alle aziende private, il premier impegnato ad agevolarne i criteri di assunzione o al contrario di licenziamento, i sindacati invece abbarbicati nell’impedire appunto i licenziamenti. Invece un’autentica politica di sinistra esige che davanti alle grandi crisi economiche tocchi allo stato, alla comunità, intervenire, farsi carico della creazione di nuovi posti di lavoro. Questa almeno è stata la soluzione classica del new deal roosveltiano, soluzione da manuale che nessun esponente della sinistra può permettersi di dimenticare. Ricordiamo che il ’29 del secolo scorso ha segnato una irrimediabile crisi del primato della borghesia, e con esso della causa del liberismo, ovvero della Scuola di Manchester col suo famigerato “laissez faire”. Purtroppo è a queste coordinate che si ispira il duo Giavazzi-Alesina, dalle colonne autorevoli del “Corriere”: per carità, lo statalismo si tenga lontano, basta allentare la cravatta al collo dell’iniziativa privata, alleggerendo le tasse e consentendo appunto di disfarsi dei carri rotti con elastica possibilità di licenziare. Se dall’altra parte ci fosse lo statalismo di impronta sovietica, questa predicazione sarebbe più che giusta, ma se invece c’è un governo costretto a prendere atto che il sistema privato non ce la fa, o che fugge dalle responsabilità? E’ successo appunto nel ’29, e la cosa si è ripetuta quasi un secolo dopo, dal 2008 in su, e ancora una volta la ricetta fondamentale è che sia la comunità a intervenire, a costo di accrescere il deficit, di imporre alla burocrazia europea di consentire sforamenti, spostamenti nei preventivi di spesa.
Forse è sfuggita una indicazione che ritengo molto utile, venuta da Bombassei, il soccombente nella gara con Squinzi per la presidenza di Confindustria, il quale di recente ha espresso un rimpianto a favore del vecchio IRI, dell’ Istituto per la Ricostruzione Industriale, lo strumento con cui il fascismo, per un momento non del tutto immemore delle sue remote origini socialiste, era intervenuto nella crisi del ’29, provocando anche una certa vicinanza di spiriti con il new deal roosveltiano. Se poi pensiamo agli anni ’40 e oltre, senza l’IRI le sorti del nostro Paese sarebbero state ben dure. Questo il punto, anche oggi ci vuole un IRI riveduto e corretto, certo sappiamo bene che i carrozzoni pubblici provocano ruberie senza fine, ma sarà pure possibile mettervi un freno, magari non intervenendo a posteriori, quando gli atti corruttivi sono già stati compiuti, ma cercando di impedirli. Diversamente, a puntare sui “capitani coraggiosi”, come pretendono i nuovi adepti della Scuola di Manchester, abbiamo i tristi esiti di Alitalia, o dell’IIva di Taranto. E dunque il dilemma pare essere: frenare le ruberie dei grand commis pubblici, o rassegnarsi alle fughe dei privati appena si profila qualche difficoltà?
Renato Barilli