Ma la RAI è davvero una società di diritto privato oppure un’azienda statale? Da questa risposta ne discende la possibilità di porre un limite ai compensi dei dirigenti
Quest’estate una piccola, grande bufera ha investito la RAI: alcuni giornalisti e dirigenti, assunti con contratti a tempo indefinito, guadagnano (!) centinaia di migliaia di euro senza avere una mansione precisa, cioè senza far niente; altri hanno stipendi superiori a quello del Presidente della Repubblica…
Da un punto di vista puramente liberale non ci dovrebbero essere problemi: un’azienda può remunerare i propri dipendenti come vuole, è l’assemblea (cioè gli azionisti, i proprietari) che è sovrana nel decidere come investire: se distribuire più utili, investire in beni strumentali, oppure pagare i propri dipendenti. Del resto chi avrebbe mai da eccepire sui compensi che, ad esempio, una Ferrari dà ai propri piloti: costano decine di milioni di euro, ma rendono miliardi in pubblicità…
Ma la RAI è una Società per azioni solo dal punto di vista formale: vive di contributi pubblici (il canone), viene diretta, gestita e controllata dai partiti: è di fatto un’azienda pubblica.
E come azienda statale deve rispondere a criteri e logiche che con il libero marcato non hanno niente a che fare: i loro dirigenti non devono rendere conto agli azionisti, ma ai loro referenti politici; il giudizio della loro attività non è quello dei risultati, del mercato, ma quello della loro deferenza.
Allora sì che si giustificano i tetti agli stipendi; perché i veri azionisti di questa società sono i cittadini che esercitano il loro potere attraverso coloro che sono da essi delegati: cioè i politici.
Ma non è questa la soluzione per il servizio radiotelevisivo che noi vorremmo: una vera privatizzazione della Rai. Una privatizzazione che non significa vendere agli amici degli amici (il che non farebbe che peggiorare la situazione), ma gestire la società con criteri privatistici, in regime di concorrenza e di libero mercato.
In questo caso ci sarebbe lo spazio anche per un vero canale pubblico, senza pubblicità, con contenuti politici e culturali che si manterrebbe grazie al canone (o alle tasse) e alle spnsorizzazioni; un servizio pubblico gestito con gli stessi criteri delle aziende pubbliche (limiti agli stipendi, controllo da parte della Corte dei Conti, indirizzi generali stabiliti dalla politica eccetera).
Angelo Gazzaniga