Un Ramadan diverso da quello integralista islamico è possibile?
Dove sta andando l’Egitto? Se lo domandava già un decennio fa lo scrittore Galal Amin nel suo Cosa è successo agli egiziani? Me lo domando ogni anno durante la ricorrenza del Ramadan, il mese sacro del digiuno. Dove stiamo andando? Perché l’Egitto assomiglia sempre meno a quello di Nasser e degli anni Cinquanta-Sessanta? Perché questa escalation del rigorismo islamico?
La risposta è in una formula che riassume in sé una pluralità di problemi: perché dopo aver tolto tutto a un popolo non gli si può togliere anche la fede.
È facile proclamare – come è accaduto di recente dalla tribuna di MicroMega – che il discrimine assoluto e incontrovertibile è tra laicità e barbarie, che laddove la religione non è relegata tra le retrovie dell’individualità là sopraggiunge la barbarie. Se sul piano strettamente teorico il discorso non fa una piega, infatti, esso è perfettamente contraddetto dalla condizione esistenziale di chi, a una laicità sempre promessa e mai assicurata, sa e sente che la religione è in senso stretto l’ultimo e solo conforto.
Tuttavia la domanda rimane: dove è andato ad affossarsi lo spirito aperto, elastico, disponibile e persino un po’ qualunquistico in termini di religione che animava gli egiziani fino a qualche tempo fa? Potrei dirlo con una battuta: è andato a finire al mare.
Ne ho avuto conferma durante una mia recente visita a Hurghada, la nota località balneare sul Mar Rosso. Per la prima volta da tanti anni ho riscoperto qui, durante il Ramadan, lo spirito aperto e non fanatico che contraddistingue nel profondo gli egiziani. Complici i turisti e gli interessi economici che ruotano intorno al mercato turistico? Certamente. E tuttavia è un fatto che a Hurghada, durante il Ramadan, si respira un’atmosfera che al Cairo o ad Alessandria è ormai scomparsa da almeno quindici anni, e che ci restituisce quella parvenza di laicità compiuta, di compiuta democraticità, che vorremmo estesa all’intero paese.
Basta aggirarsi per le strade nel corso del pomeriggio, prima della rottura del digiuno alle 19 circa. A differenza che al Cairo, il “coprifuoco ramadaniano” non esiste o è quasi impercettibile. Le caffetterie sono aperte, la gente vi consuma cibo e bibite, fumo e alcool. Molti egiziani girano lungo i marciapiedi con la sigaretta accesa tra le dita, le spiagge rigurgitano di bagnanti che si dissetano e preparano pantagruelici barbecue. I cristiani imperversano serenamente tra i musulmani con panini in mano e bottigliette d’acqua alle labbra. Scenari che al Cairo sarebbero del tutto impensabili e che qui rappresentano viceversa la normalità.
Certo, non è tutto oro ciò che luccica. Di tanto in tanto, soprattutto nei bar più defilati, accade che in nome di una legge controversa quanto abusiva la polizia compia delle retate arrestando gli egiziani – a prescindere dal loro credo – sorpresi a bere alcoolici e imponendo un’ammenda di 1500 euro ai ristoratori. E che laddove la clientela non sia mista – stranieri e autoctoni – qualche facinoroso si permetta di rimproverare persino ai cristiani, se intenti a bere o fumare, il proprio comportamento haram, peccaminoso. Ma il clima generale resta di assoluta tolleranza e totale disincanto.
Ben diverso è il caso della capitale, dove a parte qualche caffetteria esclusiva la maggior parte degli esercizi apre solo dopo il cosiddetto iftar, il pasto del tramonto che rompe il digiuno. E dove per le strade è letteralmente impossibile – eccezion fatta per alcuni quartieri a predominanza cristiana, come Shubra – incontrare passanti che bevano, fumino o mangino. Anche gli stranieri e i copti si guardano bene dall’incorrere nelle occhiatacce o negli insulti della gente.
Cosa è dunque accaduto perché solo al mare, solo laddove imperversano russi e tedeschi, italiani e francesi, si possa ancora godere dell’antico, tradizionale permissivismo egiziano? È successo che la logica delle maggioranze ha preso il sopravvento e le minoranze vi si sono adattate, non senza un latente senso di colpa. È successo che laddove le maggioranze patiscono quel che qui si chiama il “tradimento dei valori occidentali”, il rigorismo diventa prassi.
Marco Alloni