Qualcuno ricorda gli attivisti mobilitati nel giugno dell’anno scorso per il referendum “contro la privatizzazione dell’acqua?”. Avvicinavano tutti: i passanti e le donne nei mercati, la gente in attesa alla fermata dell’autobus, i giovani all’uscita dal cinema e chiedevano: “lei non crede che l’acqua sia un bene pubblico, a disposizione di tutti?”. Seguiva un’ovvia risposta affermativa: e che diamine, chi avrebbe osato obiettare qualcosa alla compulsiva dottrina ecologista? Risultato: il referendum popolare successivo ha bocciato, con schiacciante maggioranza, la possibilità di cedere ai privati della gestione degli acquedotti.
E che importa se la privatizzazione è prevista da una norma anti-monopolio dell’Unione Europea (invocata quando fa comodo, cancellata quando ideologicamente non serve?). Che importa se il 40 per cento dell’acqua a gestione pubblica va perduta perché il servizio non funziona, i soldi sono spesi male, la rete è piena di buchi? Che importa se il servizio pubblico può essere benissimo gestito da una ditta privata, purché sottoposta a parametri precisi, ed esso non diventa per questo affatto meno pubblico, anzi (funzionando meglio) lo è di più?
Così il referendum sull’acqua si è trasformato, a causa della disinformazione generale, astutamente sfruttata dai verdi talebani e dai loro alleati, in un referendum truffa. E adesso la provincia di Cremona, tanto per fare un esempio, ha annunciato che non potrà continuare il servizio di acqua potabile senza investimenti privati.
Morale della favola: il referendum, sostenuto dai Comitati per le Libertà come strumento di democrazia diretta, può trasformarsi in un boomerang se non è accompagnato da una informazione corretta. Che tocca anzitutto ai giornalisti dotati di indipendenza critica; e poi ai cittadini liberi, che devono sapersi organizzare in tempo per controbattere i talebani, sia progressisti che reazionari. Altrimenti si torna alle caverne.
La democrazia, insomma, costa fatica: ma resta la cosa più preziosa che abbiamo.
Gaston Beuk