Dopo un mese di misure eccezionali (Decreti del presidente del Consiglio, Ordinanze di ministri, di presidenti di Regioni, di sindaci…) i cittadini sentono urgenza di chiarezza sui loro diritti. Essi, infatti, cominciano a diffidare di provvedimenti ultimativi, spesso di difficile interpretazione e tra loro contrastanti (basti pensare al rebus delle ultime ore sull’apertura/chiusura degli studi professionali).
Si affollano misure che, pur animate da buone intenzioni, a volte creano più problemi di quanti ne risolvano, inducendo a interrogarsi sul rapporto tra lo scopo in esse enunciato e i mezzi adottati per perseguirlo. È il caso dell’ordinanza Lamorgese-Speranza che il 22 marzo pomeriggio, una domenica, vietò “a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in comune diverso da quello in cui si trova(va)no”. Un fulmine, poche ore dopo ribadito dal Decreto Conte, che, in aggiunta, vietò “il rientro presso il proprio domicilio, abitazione, o residenza” ragionevolmente previsto dal suo precedente Decreto dell’8 marzo. La motivazione addotta a giustificazione di tali provvedimenti, che non hanno precedenti nella storia della Repubblica, è stata di bloccare sul nascere un eventuale esodo da Nord a Sud.
Per impedirlo, tuttavia, bastava circoscrivere il divieto di spostamento dalle regioni del nord a quelle dell’Italia centro-meridionale. Per sua natura fisica l’Italia della “linea gotica” si presta a misure di ampia veduta. E’ molto meno adatta a chiudere improvvisamente gli abitanti nei confini dei comuni nei quali si trovano (magari per caso), date le loro dimensioni del tutto dispari, frutto di storia millenaria, e soprattutto per le condizioni oggettive e ben note di molti piccoli centri privi di sportelli bancari, bancomat, uffici postali, farmacie e “presidi” indispensabili, “negozietti”. Non bastasse, a volte il territorio dei comuni, dalle frazioni disseminate ai quattro venti della storia, è percorso da strade che si insinuano in quelli contigui.
Manca una ricognizione documentata delle ripercussioni effettive della decretazione del 22 scorso: misure da vero e proprio “stato d’assedio”.
Sic stantibus rebus si impone l’immediato ripristino della democrazia parlamentare, cardine dello Stato d’Italia: urge, quindi, la convocazione delle Camere.
L’art. 76 della Costituzione è chiarissimo: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato (quindi, notiamo, non prorogabile a singhiozzo, come avviene da un mese e si lascia intravvedere per il futuro) e per oggetti limitati”. L’art. 77 Cost., d’altro canto, attribuisce al Governo il potere di adottare,“sotto la sua responsabilità” e “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, decreti che debbono essere convertiti in legge dalle Camere entro sessanta giorni a pena di decadenza. I decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) non hanno forza di legge, ma sono atti amministrativi: essi non possono dunque limitare diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale; a partire dalla libertà di circolazione, la quale è coperta da riserva di legge “rinforzata” (art. 16 della Costituzione).
Se poi si obiettasse che “siamo in guerra”, come molti retoricamente dicono, va allora ricordato che l’art. 78 della Carta non consente sconti: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari”: un articolo deliberato nel ricordo degli improvvidi modi dell’ intervento dell’Italia in due guerre mondiali, con esiti catastrofici per le istituzioni.
In sintesi, non se ne esce: le Camere debbono riprendere subito le loro funzioni.
Nel frattempo ogni giorno che passa a molti cittadini un “potere” che decreta e ordina in forme così perentorie da risultare arrogante, minaccioso, “fulminante”, per molti cittadini risulta “meno amico” e più lontano dalla loro vita quotidiana: proprio l’opposto di quanto è necessario quando si chiedono sacrifici.
di Aldo A. Mola