Come Italo Calvino ha interpretato l’opera di Giorgio De Santillana, filosofo della scienza
Si incontrarono almeno nel 1985 Giorgio De Santillana, filosofo della scienza riparato in America a seguito della promulgazione delle leggi razziali e del quale ricorrono i quarant’anni dalla morte ( 1901 – 1974 ), e Italo Calvino, narratore epistemologo e utopista critico di vasta erudizione: due genii pluriprospettici, nel senso per cui – a dirla in breve – i rispettivi percorsi, per la intrinseca profondità e pluralità di intenzioni, possono esser trattati, scomposti e ricomposti mercé la “teoria dei frattali” ( dal latino “Fractus”, elemento spezzato all’infinito in cui si rinviene sempre il tutto, il caos riadducendosi a cosmos, – Mandelbrot direbbe ). Opere e sistemi della modernità atti a sopportare la qualifica del “pluri-prospettivismo”, al di là della classificazione di genere, si colgono secondo me – in via d’esempio – nelle “Variations sérieuses” di Mendelson, nella “Recherche” di Proust, in“Finnegans Wake” di Joyce, “Zauberberg” di Thomas Mann, e i “Four Quartets” di Eliot, nella “Poesia” con postille 1936 di Croce,“Il paesaggio e l’estetica” di Rosario Assunto, la teoria del giudizio prospettico e le origini della dialettica secondo Franchini, con il “Poscritto alla logica della scoperta scientifica” di Karl Popper e il dialogo in tre parti dello stesso epistemologo con John Eccles “L’Io e il suo cervello”, nella “Colonna e il fondamento della verità” di Pavel Florenskj, ancora ne“Il Mulino di Amleto” di Giorgio De Santillana ed Hertha von Dechend e –per l’appunto – grazie al Calvino delle “Lezioni americane” ( “Six Memos for next Millennium”) o delle “Città invisibili” e “Il castello dei destini incrociati”.
Sempre che non si voglia ritenere che ogni pensiero autenticamente rielaborato e vissuto trattenga nel suo seno un ideale ‘pluri-prospettivismo’, una intrinseca pluralità d’interessi e sconfinamento di generi, stante il ponte che stabilisce sia tra pensiero e azione che tra le varie “resultanti” dei processi cognitivi. Ma poi resterebbe pur sempre da vedere come l’atto del giudizio riesca effettivamente a incanalarsi in tante – persino infinite – diramazioni, trasmigrazioni ideali, e coniazioni inarrese, dove la forma stessa ( disse Beckett ‘giovane’ a proposito del Joyce ‘estremo’ ) “è” il contenuto.
Calvino, che conosce “Andria” ideal-reale, ha scritto la postfazione al bel volume Touring dedicato ai “Castelli di Italia”, nella cui sezione dedicata ai castelli del “potere” Castel del Monte precede il grande Castello estense di Ferrara. Calvino rielabora, reimmette, traduce, rifonde del continuo letture, esperienze mitiche e fantastiche, regesti di scienza astronomica e fisica. E, in lieve ritardo, commenta a fondo “Fato antico e fato moderno” del Santillana ( concepito come una sorta di premessa generale, se non prefazione, alla vasta sintesi del “Mulino di Amleto. Saggio sul mito e la struttura del tempo” ). Il volumetto adelphiano censito è del 1985. La “recensio”, da “Repubblica” del 10 luglio di quell’anno, trasmigra nei suoi “Saggi 1945-1985” ( a cura di Marco Barenghi, Tomo II, Milano 1995, 2085-2091 ).
Oso fare io un passo indietro verso un luogo di De Santillana, non adeguatamente notato – forse – da Italo Calvino: un luogo che non conoscevo bene quando scrissi, nel 2002, la “Teoria della tetrade”, a complemento del mio tentativo di “sistema”, e nel quale l’analisi astronomica che vi funge da paradigma sarebbe entrata benissimo in taglio, nelle parti di filosofia della scienza. Ora, Santillana dice che l’uomo ha iniziato ad avere piena coscienza astronomica del mutamento delle case zodiacali determinato dal fenomeno della precessione degli equinozi ( mutamento che impegna 2.200 anni circa, non “2400”, come legge il Calvino ), a partire dall’anno 4.800 a. Cr. Ed è qui che lampeggia sfolgorante la dimensione della “quaternità”, in senso cosmologico. Perché, in effetti: “Il modello originario della ‘città quadrata’ dell’Apocalisse misurata dall’angelo con la sua asta d’oro è il Paradiso Terrestre, per gli astronomi babilonesi ‘mul.iku’, che identificavano col q u a d r a t o d i P e g a s o. E perché poi quello ? Perché si trovava perfettamente inquadrato fra i punti delle Quattro Tempora, al tempo in cui i punti equinoziali si trovavano sulla Via Lattea, che sembra essere stato il momento d’origine scelto per il computo del tempo: e che fu verso il 5000 a. C. La Via Lattea diventava allora il ponte fra terra e cielo, e ai quattro capi ( solstizi ed equinozi ) si trovavano le quattro figure bifronti significanti immortalità: Sagittario, Gemelli, Pesci, Vergine con Spica. ‘Iam redit et Virgo’…” ( “Fato antico e fato moderno”, ed. cit., p.24: ma alla pag. 28 dello stesso saggio, Santillana precisa: Fu quando, in virtù della Precessione, il sole equinoziale si trovava agli incroci della Via Lattea con lo Zodiaco, cioè in Sagittario e Gemelli; il che avvenne nei secoli intorno al 4800 a. C.” ). Dunque, sulla Via Lattea, a quell’altezza, era insieme visibili le quattro costellazioni bifronti, allo spettacolare incrocio dei punti equinoziali. Tutto ciò è detto “Quadrato di Pegaso”o incrocio delle Quattro Tempora”( come fondamento astronomico del mito babilonese ): ma anche, nella intensa rifusione di paradigmi plurimi operata dal Santillana, “città quadrata dell’Apocalisse” e “Paradiso Terrestre”( per il cristianesimo ).
E’ notevole che in De Santillana ci sia molto Vico, per il suo “avvertimento del cielo”, la riscoperta del mito e della “sapienza riposta” degli antichi, l’idea del “ricominciamento del tempo”, della “poesia seriosa” e della “ingenua certezza” della “Scienza Nuova” ( passim in molti luoghi di “Fato antico e fato moderno” ); e persino Croce, per il ritrovamento del trattatello “Della dissimulazione onesta” di Torquato Accetto ( “scovato non so dove”, p. 41 ), a proposito della sapienza dei moderni. Per parte sua, l’autore di “Palomar” sente tutto il fascino ermeneutico di queste intense pagine; e, da par suo, dà atto del senso del celeste anche nella prefazione vergata dal Croce per la edizione italiana de “Lo Cunto de li cunti” di Giambattista Basile: “Non sorge l’Alba e non tramonta il Sole, in quei racconti, che egli non trovi un nuovo e bizzarro modo di metaforeggiare quelle frasi del giorno con perifrasi questo genere: ‘All’ Alba, non appena gli uccelli gridarono: Viva il Sole !’; ‘quando il Sole riuscì a sciorinarsi per mandar fuori l’umido assorbito nel fiume dell’India’; ‘quando il Sole con le ginestre d’oro dei raggi spazza le immondizie della Notte dai campi innaffiati dall’ Alba’; ‘quando l’Alba esce a cercare uova fresche per confortare il vecchierello amante suo’; ovvero: ‘all’ ora in cui le palle indorate, con le quali il Sole gioca pei campi del Cielo, prendevano la corsa inclinati verso l’Occaso..’ “ ( Introduzione a “Il Pentamerone”, Bari 1974, I, p. XXXVII ).
Dove la freschezza dello stile volutamente “plebeo” serve a infarinare il senso di spaesamento, la percezione di immersione ed emersione della linea dell’orizzonte ( “mandar fuori l’umido assorbito nel fiume dell’India”; inclinazione “verso l’Occaso”, e via ), all’altezza del ‘mutamento’ di prospettiva provocato anche dalla rivoluzione copernicana. Pure, Calvino prolunga la eco delle fini osservazioni crociane, ne “La mappa delle metafore” ( Prefazione a “Il Pentamerone”, ed. cit., pp. V-XIX ): “Il mondo delle fiabe è un mondo mattiniero. Quasi in ogni pagina il ‘Pentamerone’ è illuminato da un’alba o da un’aurora. Si direbbe che per Basile il passaggio dalla notte al giorno ( e così il suo inverso ) faccia parte della punteggiatura. Già Croce apriva la sua esemplificazione dell’arte perifrastica di Basile con quattro ‘albe scelte’ “. Ma ora, per tornare al confronto diretto con De Santillana, Calvino è colpito dalla traslucida ironia del filosofo della scienza ed episteme astronomica a proposito non solo del raffronto tra Fato antico ( tirannia degli astri ) e fato moderno ( la storia e la idea di “progresso” ), ma anche della coscienza del senso del celeste.
Che cosa è diventato il “furor mensurandi”, nel passaggio tra scienza astronomica e micro-fisica moderna ! Ed è “citazione che merita di figurare in un’antologia ideale, a testimoniare il piglio e lo stile del Santillana scrittore, e la causticità del suo sarcasmo”. La citazione, cioè, di uno dei due passaggi dedicati dal Santillana all’orizzonte di aspettative della fisica quantistica: “E’ ben vero che la realtà fisica per conto suo tira calci per vendicarsi dei suoi conoscitori, sparandoci in faccia una confusione di particelle elementari transeunti e mal distinte, insulto al buon senso, fra cui lo scienziato si aggira ormai come l’impallinato nella notte” ( “Fato antico e fato moderno”, commentato alle pp. 2086-2087 della sezione ”Immagini e teorie”, nelle “Letture di scienza e antropologia” dei citati “Saggi 1945-1985” ). L’altro passo di critica alla modernità analitica e tardopositivistica introdotta da Santillana è il seguente: “La nostra epoca, che si fa vana di precisioni finora mai pensate, di misurare il tempo sulle vibrazioni atomiche e di telemetrare satelliti artificiali fino alla distanza di Marte, la nostra scienza insomma, quantitativa fino in fondo, non dà ancora idea di questo ‘furor mensurandi’ dei primi tempi” ( “Fato antico e fato moderno”, p. 30 ). Vero è che Calvino stesso, in chiusura nella glossa prima riportata, inclina al “politically correct”, aggiungendo per la “causticità” del Santillana: “Che va situata alla data in cui è stata scritta, una ventina d’anni fa: prima, cioè, della nuova ventata d’euforia che – se bene intendo – è tornata a gratificare la fisica subatomica”. Pure, la polemica del Santillana non può non rammentarci, da vicino, “Il fuoco di Eraclito”, l’autobiografia intellettuale e morale del primo scopritore del DNA e della doppia elica Erwin Chargaff, anch’egli ferocemente critico verso lo spezzettamento del mondo ( l’atomo, il cervello, la cellula ), procedura intellettualistica contrassegno della accresciuta “volontà di potenza” della modernità ( cfr. il mio “Ipotesi e problemi per una filosofia della natura”, Adda, Bari 1987 ).
L’altro punto che tocca Calvino, interprete di Santillana, è il recupero di “Guerra e pace” di Lev Tolstoj, là dove Pierre Bezuchov, fatto prigioniero, si risolleva con il senso del celeste, prima di dialogare con il contadino Platone Karatajev: “Rileggendo ora il testo, ritrovo l’emozione di quando Santillana uscì con l’esempio inaspettato di Pierre Bezuchov in ‘Guerra e pace’, che fatto prigioniero e in pericolo di vita guarda le stelle e pensa che tutto questo cielo è in lui, ‘è’ lui” ( pp. 2088-2089).
Ma questa è la stessa percezione di Boris Pasternak, onde Santillana riconosce: “E quando il socialismo ci ha dato un libro importante, ‘Il dottor Zivago’, era un libro che ritrovava il cosmo e prendeva le distanze dal socialismo” ( “Fato antico e fato moderno”, cit., p. 49 ). E poi lo è di Momigliano e Bassani interpreti della poesia celestiale di Dante ( persino, – si badi – più celestiale nel “Purgatorio” che non nel “Paradiso” ); di Ernesta Battisti Bittanti lettrice della “Primavera” di Botticelli; del “senso oceanico” ricercato e discusso da Arthur Koestler in “Buio a Mezzogiorno” e nei “Sonnambuli”; persino, della foto più bella dell’anno 2013, dei migranti a Gibuti, che accendono sotto la luna velata i cellulari per l’ultimo duplice “ancoraggio”, verso il cielo e i propri cari.
Ecco, approssimandomi a una quanto mai provvisoria conclusione, direi che il diavoletto ( “Teufel”) è bel “Verstand”, l’intelletto astraente, stenogramma di un malinteso “divenire” e “progredire”, all’insegna della “volontà di potenza” ( direbbe forse, qui, Emanuele Severino ). In “Palomar e l’enciclopedia”, articolo apparso in prima stesura sul “Corriere della sera” del 30 luglio 1977 ( quindi nei “Saggi”, già più volte citati, II, pp. 1797-1800 ), Calvino ha sottolineato, tra le voci “Astronomia” ed “Enciclopedia”, “Anthropos”: “Il signor Palomar posa il volume al suo capezzale. Si addormenta. Sogna una enciclopedia da bere come un uovo fresco. Attraverso un buchino fatto con uno spillo, tira su tutto il tuorlo. No, al centro del tuorlo c’ è lui stesso, come già gli avvenne prima della nascita, che divora dal di dentro il contenuto dell’uovo e del mondo”. Il sogno di Palomar ci ricorda la coeva poesia gnomica di Montale ( assai presente in Italo Calvino ), che in “Satura” ha scritto: “Gli inizi sono sempre inconoscibili. Se si accerta qualcosa, quello è già trafitto da uno spillo”.
Giuseppe Brescia