Che fine ha fatto il buono-scuola, garanzia di competizione nell’ambito della scuola?
La realtà è che nessuna scuola sarà mai uguale all’altra: insegnanti meglio preparati, un laboratorio ben attrezzato o una biblioteca ben fornita, personale amministrativo competente e disponibile… sono tratti che, di volta in volta, fanno la differenza tra scuola e scuola. Ora, però, se nessuna scuola è e sarà mai uguale ad un’altra, sorprende che ci si ostini a negare che tutte le scuole, statali e non statali, potrebbero migliorarsi sotto lo stimolo della competizione. A base della ricerca scientifica, della società democratica e della libera economia, la competizione è la «macchina sociale», per dirla con Friedrich A. von Hayek, che porta alla scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio. In tal senso, la competizione costituisce la più alta forma di collaborazione. E se questo cercare insieme, in maniera agonistica, la soluzione migliore è il terrore di ogni conservatore, il suo rifiuto equivale ad un rapido ritorno all’interno della caverna.
La scuola privata – osservava Gaetano Salvemini già nel 1907 – «può essere un utile campo di esperimenti pedagogici, rappresentare sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica, e obbligarla a perfezionarsi, senza tregua, se non vuol essere vinta e sopraffatta». Ed ecco, una decina di anni più tardi, Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato». Un’idea, questa di libertà di scuola, che, prima di Salvemini e di Gramsci e in contesti differenti, era stata difesa, tra altri, da Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e ancora tra altri, da Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani. Ma è chiaro che, senza parità economica, la parità giuridica tra scuole statali e scuole non statali è soltanto un ulteriore inganno carico di nefaste conseguenze. E qui va detto che, tra le diverse proposte per l’introduzione di una effettiva competizione all’interno del sistema formativo, la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola” – idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successivamente da Hayek, e sulla quale da noi insiste e non da oggi Antonio Martino. Con il “buono-scuola” i fondi statali sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro “buono”. In tal modo, pressata dall’interesse di non vedere gli iscritti scappare da essa, ogni scuola sarebbe spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti.
Quella del “buono-scuola” è, insomma, una proposta in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza della scuola. E sembrava, dai vari annunci dei mesi passati, che il governo Renzi, con il principio di detrazione fiscale per le rette delle scuole paritarie, si avvicinasse alla proposta del “buono-scuola”. Sennonché, «dal gran banchetto di parole» è uscita fuori una solenne presa in giro: l’importo della detrazione proposto dal governo non è altro che un’elemosina.
E qua giunti, qualche domanda al presidente Renzi. Uno Stato che costringe suoi cittadini a pagare per comprare pezzi di libertà è davvero uno Stato di diritto? Aveva torto Luigi Einaudi a sostenere che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio?». E poi Salvemini: «Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole anche se in esse i miei figli venissero educati male». Cosa c’è che non va in questa considerazione di Salvemini? Come può il presidente di un governo che si dice di sinistra non vedere – come, invece, anni addietro fece presente un noto rappresentante del Partito comunista – che il “buono-scuola” è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? Avere un buon naso per fiutare i problemi e poi sbagliare via via le soluzioni significa sì andare avanti, ma andare avanti sulla cattiva strada.
Dario Antiseri