Se avesse vinto il Si al referendum avremmo avuto un’Italia governata da un comitato di affari?
Stiamo assistendo alla disintegrazione del renzismo, inteso come sistema di potere superficialmente rivestito di una ideologia modernista e politicamente corretta. Parallelamente è sotto i nostri occhi la frammentazione dello strumento principale da esso finora utilizzato, il Partito Democratico.
Ma se proviamo a diradare il polverone di rivelazioni e strumentalizzazioni legate all’affare Consip, scorgiamo il punto di non ritorno, il momento della svolta, l’evento decisivo in cui la pentola è stata scoperchiata. Stiamo parlando del referendum costituzionale celebrato nel dicembre scorso, e del suo esito.
E’ ormai evidente che il blocco di influenze, lottizzazioni, facilitazioni, egemonie culturali, personalismi, aveva come stella polare la vittoria del sì: un sigillo governativo che avrebbe dovuto stabilizzare i centri di potere dell’Italia per gli anni a venire.
In questi giorni di psicodramma, come sempre avviene nei momenti di “change”, volano gli stracci. Il protagonismo incontenibile della magistratura, i regolamenti di conti fra ex alleati, l’illiceità di pretendere una mozione di sfiducia individuale nei confronti di un singolo ministro, gli insulti e le furbizie distraggono soltanto dal nucleo dell’affaire. L’enormità di una dichiarazione di Matteo Renzi, secondo il quale una colpa accertata del padre richiederebbe una “pena doppia”, non può che indignare chi crede nella democrazia. Dire che Renzi senior meriterebbe una pena speciale, anche se “doppia”, equivale ad affermare che la giustizia si fa ad personam, esemplarmente e secondo le convenienze politiche, per cui la pena “doppia” in altre circostanze e con altri indagati avrebbe potuto essere cambiata in assoluzione.
Ma nel brogliaccio delle intercettazioni capita di cogliere un dettaglio; ed è nei dettagli, come si sa, che spesso si annida il diavoletto.
È il 27 settembre scorso e nel suo ufficio romano Alfredo Romeo, il noto imprenditore ras degli appalti pubblici, incontra per l’ennesima volta Carlo Russo, imprenditore vicino alla famiglia Renzi. I magistrati ascoltano, seppure i due parlino a bassa voce.
“Tiziano mi chiede di dirle che lui è a disposizione, ma aspettiamo il referendum…”, sussurra Russo. E quando Romeo gli chiede se esistesse un “piano B” in caso di sconfitta alle urne, Russo dice che “non deve nemmeno pensarci”. Perché, naturalmente, pensavano di vincere, i sostenitori del Sì alla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi, e questo avrebbe “facilitato” tutto il resto.
Un particolare apparentemente marginale è in realtà rivelatore, e permette di intravedere il disegno complessivo. Una vittoria del Sì avrebbe consegnato l’Italia a un simile comitato d’affari, conferendogli il sigillo governativo. I due pilastri sarebbero stati la riforma costituzionale, congegnata in modo da sottomettere una volta per tutte il Parlamento al potere esecutivo, e la connessa legge elettorale che avrebbe garantito al partito del premier una maggioranza schiacciante, a prova di qualsiasi sfiducia e libera da qualsiasi controllo. Il resto lo avrebbero fatto la Rai, occupata spietatamente dagli uomini legati al “giglio magico” fiorentino, la rete di influenze pervasive ad esso collegate (inclusa gran parte dell’informazione Mediaset), e la squadra dei replicanti renziani, professionisti della “lingua di legno”, megafono del Capo.
Ce n’è abbastanza da farci constatare che la democrazia italiana, per come la conosciamo – e pur con tutti i suoi gravi difetti – il 4 dicembre se l’è cavata per il rotto della cuffia. Senza nulla togliere, si badi, alle tante brave persone che, in perfetta buona fede, hanno votato Sì ritenendo di aprire la strada a un’Italia più moderna ed efficiente.
Adesso volano gli avvoltoi, ed è un pessimo spettacolo. Ma, almeno, non volano sulle spoglie della democrazia liberale.
di Dario Fertilio