Come Manzoni adatterebbe i Promessi Sposi al mondo attuale?
Potrebbero probabilmente venire recensiti da alcuni chierici della critica, che paiono più ansiosi di esibire il loro intellettualismo e la loro cultura parolaia che desiderosi di far capire qualcosa del libro a potenziali lettori, come segue.
“ Il malvagio è sempre stato un personaggio che ha affascinato autori e lettori, non tanto per l’essere malvagio in sè, quanto perchè rappresenta una categoria antropologica che prescinde dalla sua umanità standardizzata per collocarsi in un emisfero a mezz’aria tra il bene ed il male. A mezz’aria perche non è negata al malvagio la possibilità di redimersi e di ricollocarsi nel bene, ma neppure la possibilità di cadere per sempre nelle bolge dannate per l’eternità.
Cosa, tuttavia, che si può constatare solo dopo morte.
E cosa che, peraltro, già sosteneva Plotino secondo il quale l’uomo non è mai definibile nel corso della vita, ma solo nel dopo.
Acutamente il Manzoni evidenzia questa dicotomia nel personaggio dell’Innominato che appare inizialmente come un dannato senza possibilità di riscatto, ma che si rivela in seguito uomo pentito cui non si può negare il perdono e la speranza, perchè no, di potersi avviare addirittura verso la santità.
Naturalmente i malvagi hanno sempre bisogno di una vittima sulla quale esercitare le loro azioni esecrande, così, nel romanzo si staglia il personaggio della sposa mancata, Lucia, alla quale il promesso sposo è impossibilitato a dare protezione e che sarà salvata grazie all’intervento di un deciso uomo di chiesa.
Si muovono attorno a vittima e malvagio personaggi minori che il Manzoni manovra con sufficiente maestria. Anche se alcuni, come don Rodrigo e don Abbondio, che pur possono appassionare il lettore, paiono piuttosto schematici ed imbalsamati nel loro ruolo scontato, rispettivamente di signorotto prepotente e di sacerdote mediocre e vigliacco.
Personaggi che avrebbero certamente attirato la curiosità di un Borges e di un Calvino, ma che avrebbero potuto anche uscire dalla penna di un Tennessee Wiliams minore.
Ma stona tra i personaggi il leguleo facondo ed imbrogliaparole, troppo macchietta, troppo da teatro popolare per assurgere alla dignità di compartecipe dell’azione.
Il finale è lieto, naturalmente, ed in questo l’autore si è forse lasciato trasportare un po’ troppo dal manierismo del romanzo ottocentesco che vuole certo creare emozioni in chi legge, ma soprattutto lanciargli un messaggio di ottimismo e di bontà della natura umana. Ma il lieto finale si intuisce già molto prima della fine del romanzo e questo toglie certamente pathos, tensione emotiva all’evoluzione della trama.
Lo stile del Manzoni è piano, forse qualche fioritura in più ed un frasare meno linearmente banale avrebbe giovato.
In sintesi, opera decorosa, ma non è superfluo aggiungere che essa sta ad un Gattopardo come una pittura rupestre del mesolitico spagnolo, seppur gradevole e stimolante, sta a l’arte etrusca”.
Il potenziale acquirente del libro non avrebbe, naturalmente, capito niente.
Ettore Falconieri