Se il partito-azienda dovesse fare la stessa fine delle società sportive sponsorizzate da Berlusconi negli anni ’80?
Si racconta che i dirigenti di Forza Italia soffrano di un incubo ricorrente. Sono riuniti nella sede del partito, all’indomani delle elezioni europee, quando arriva l’annuncio ferale dei risultati: nonostante la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi, Fi arranca sotto al 10 per cento. Tutti cercano il Capo per conforto, ma non si trova. Inquietudine, angoscia. Poi, con un lampo di chiaroveggenza, un vecchio militante rammenta a tutti il precedente della Polisportiva Milan. Era una società concepita dal Presidente – racconta – per diffondere una immagine sportiva vincente a 360 gradi, non limitata al mondo del pallone. E allora? Be’, comprendeva le squadre di rugby, pallavolo, hockey e baseball (solo per il basket, a causa di qualche intoppo, aveva momentaneamente soprasseduto). Tutte le società milanesi erano state ripescate da gloriosi, ma polverosi armadi dei ricordi e, grazie a un’iniezione di ottanta miliardi in vecchie lire, trasformate di punto in bianco in vittoriose macchine da guerra. Ai Devils dell’hockey, per dirne una, era arrivato il finlandese Kurri, l’equivalente di Maradona con i pattini ai piedi. Al Gonzaga, nel volley, Andrea Zorzi e Andrea Lucchetta, giocatori emblema dell’Italia campione del mondo. All’Amatori del rugby Dominguez e i fratelli Cuttitta, piloni anch’essi della nazionale. E persino la cenerentola degli sport ambrosiani, il baseball, era tornato di colpo ai fasti di un tempo, con scudetti, Coppe Italia e una Supercoppa già in cantiere. Erano stati cinque anni da sogno, fra l’89 e il ’94. Poi, un brutto giorno, si presenta l’amministratore delegato della Fininvest, Franco Tatò, e annuncia ai dirigenti e ai giocatori riuniti la fine della storia, Tutti a casa, con un contentino di un miliardo da dividersi per coprire le spese di liquidazione. E come mai? Semplice: Berlusconi aveva scoperto che il gioco non valeva la candela, gli spettatori degli sport minori erano troppo pochi. Dunque, rubinetti chiusi. Da un momento all’altro, Milano era desaparecida dai radar sportivi. I giocatori migliori, disperati, si erano aggrappati alla prima offerta di ingaggio, agli altri non era rimasto altro da fare che appendere al chiodo mazze, guantoni e magliette. Dura legge del mercato, ma legge. Ad illustrare le glorie del Cavaliere, Tatò aveva comunicato che il Milan del calcio bastava e avanzava (oggi, con il senno di poi, sappiamo come è andata a finire).
Così parla il vecchio militante, nell’incubo dei dirigenti forzisti. E di colpo, la sparizione di Berlusconi assume agli occhi di tutti un terribile significato. Se quel che non rende si chiude, che può succedere al partito azienda dal momento che non tira più? E’ a quel punto che la Gelmini, la Bernini, Brunetta e Tajani, coperti di sudore, si svegliano.
(da “Italia Oggi”)
di Dario Fertilio