Un’analisi critica dell’ultimo libro di Sebastiano Vassalli
Non ho certo pianto per la morte di Sebastiano Vassalli, se non per il dovuto omaggio che dobbiamo pur rendere ad ogni membro del consorzio umano quando se ne va. Il suo postumo “Io, Partenope” mi conferma nella poca stima che gli ho sempre tributato, per lo meno dal momento in cui ha fatto la svolta, rivolgendosi al passato, facendosi prigioniero di tutti gli stereotipi. Altro che cantore dei destini nazionali, egli ci si mostra tutt’al più degno di stendere una seppur brillante e smaliziata guida turistica per chi voglia conoscere in breve vizi e virtù della Penisola.
Questa sua acquiescenza al già detto e fatto gli ha procurato la supina adesione di un vasto pubblico, comprensivo di una certa intellettualità che pure dovrebbe far aprire gli occhi agli impreparati e aiutarli a evitare i facili tranelli, ma questa funzione salutare non può certo venire da chi regge le sorti del Campiello, il peggiore tra i nostri premi letterari, quello che riesce sempre a fare lo sgambetto a chi entra nella cinquina finale con tutti i giusti crismi, come quest’anno era il caso di Antonio Scurati, con un’opera senza dubbio problematica ma vitale. Neanche a dirlo, questo Premio super-popolare e conformista al massimo si è affrettato a dare un riconoscimento all’illustre estinto.
Ma veniamo ora all’ultimo prodotto di Vassalli, che ha come protagonista tale Giulia Di Marco. L’autore ci dice che si tratterebbe di un personaggio reale, storico, vissuto tra Napoli e Roma sul finire del Cinquecento e nella prima metà del Seicento. Ma ho già insistito, proprio parlando di Scurati e anche di Maggiani, sul rapporto tra il vero storico e il verosimile della creazione romanzesca, cui Vassalli in definitiva si vuole attenere, e dunque lasciamo perdere l’esistenza reale di questa figura, ammesso che ci sia, stiamo a come ci si presenta in queste pagine attraverso il trattamento narrativo. Che appunto passa da uno stereotipo all’ altro. Primo tempo, qui Vassalli prende a modello i grandi esempi di Defoe, basti pensare a Moll Flanders o a Lady Roxana, per darci scene ripetitive di pauperismo. La Di Marco nasce a Sepino, in Molise, e beninteso è afflitta da tutte le possibili disgrazie previste in questo copione, che presso Defoe, o anche Dickens, o anche i nostri Veristi, ha del sublime ed eroico, mentre venendo a Vassalli è solo sciatta ripetizione. Naturalmente il padre scompare, la madre la maltratta e infine la vende a un mercante, che se la prende, nonostante forse non sia neppure sviluppata, come compagna di letto e domestica, finché non crepa, e allora questo misero giocattolo passa nelle mani di una sorella di lui, che la porta a Napoli. Qui un salto del tutto inverosimile, ovvero l’aggancio a qualche altro stereotipo, La Di Marco ha un’incredibile crescita su se stessa, l’abbiamo lasciata come misera giovane che si aggira per le vie di Napoli, preda di un bellimbusto che la mette incinta, obbligandola ad abbandonare il neonato alla ruota degli orfanelli, Defoe e Dickens appunto insegnano. Ma ecco che all’improvviso da questo “poco di buono”, destinata a frequentare i quartieri riservati alle prostitute (da bravo compilatore di guide turistiche Vassalli qualche utile notizia folclorica ce la dà, apprendiamo per esempio che le povere prostitute napoletane dovevano indossare delle mantelline gialle per rendere manifesto il loro status).
Ma lungi da noi quelle miserie, perché Giulia, davvero per miracolo, diviene invece una monaca, ben presto avvolta da grande fama e posta al centro di una comunità mistica, apprezzata perché sa procurare ai propri adepti delle forme di estasi. Naturalmente queste pratiche suscitano la diffidenza della Chiesa ufficiale, e potremmo chiosare che quei sospetti appaiono addirittura legittimi, ma è ora di cambiare stereotipi, Vassalli ha a disposizione tutti i centoni dei nostri romanzieri storici dell’Ottocento, Guerrazzi e compagni, che hanno inzuppato il loro biscotto negli orrori della Sacra Inquisizione, cui Suor Partenope, come era stata denominata all’ombra del Vesuvio, viene sottoposta in qualche lurida cella romana. Si sa che queste narrazioni titillano i sensi pruriginosi del lettore con la loro miscela di sadismo e di erotismo. Infatti gli inquisitori, basti pensare al dramma di Beatrice Cenci, ci sapevano fare nei due aspetti, torcendo le membra dei poveri sottoposti, e, se donne, infliggendo loro penetrazioni e stupri a tutto spiano. Qui di nuovo la nostra Giulia avrebbe potuto e dovuto languire per sempre, scomparire nelle segrete di qualche monastero, ma l’autore, bramoso di rasentare qualche altro stereotipo, e anche di prolungare il romanzo di un numero sufficiente di pagine, infila un’altra possibilità, ricordandosi più che mai di essere il compilatore di una guida alle glorie dell’Urbe. Attraverso affrettati e improbabili passaggi Suor Partenope giunge ad avere dei rapporti addirittura con Gian Lorenzo Bernini, di cui quindi ci viene servito un ritratto, tra storia e leggenda, dominato dalla donna fatale, Costanza Bonarelli, amata a lungo dal grande scultore, e da lui effigiata in un ritratto, quello sì, di meravigliosa verosimiglianza. Poi, con passo del tutto temerario e ingiustificato, si viene a dire che il grande Bernini si sarebbe ispirato addirittura alla nostra monaca nel concepire il ritratto di Santa Teresa di Avila. Tanto, nessuno si prenderà mai la pena di andare a verificare se questa callida iunctura è possibile o no. Alla fine, il lettore dovrebbe ricavare da tutto ciò un volto conclusivo e riassuntivo delle due città, ma ovviamente per quanto riguarda Roma, ne viene fuori una retrospezione di mafia capitale, o magari dei funerali di Casamonica. Chi non vuole pensare, chi non ama scontrarsi con la rugosa e incerta realtà, è servito, riceve immagini conformi, come già se le era costituite per conto suo. Per dirla con Pirandello, tutto per bene, ma non è una cosa seria.
Sebastiano Vassalli, Io, Partenope, Rizzoli, pp. 282, euro 19.
Renato Barilli