“Non c’è nulla di paragonabile alla confusione di una mente semplice”:
Francis Scott Fitzgerald
“C’è sempre qualcosa di perturbante nell’opera d’arte”
Romolo Rossi
La critica Parul Sehgal ha sparato un colpo di bazooka a Francis Scott Fitzgerald: “Il Grande Gatsby” non sarebbe un capolavoro, ma un lavoro mediocre; a questa conclusione a dir poco tranchant ella giunge nel suo profilo patobiografico di Scott “Il fascino eterno e insensato del Grande Gatsby” ripubblicato su R2 de la Repubblica, sulla base della cosiddetta “eziologia freudiana” (parola che piaceva da matti a Irving Stone) come metodo di analisi letteraria. Facciamo un passo indietro, però.
Sigmund Freud non sapeva di essere un prodotto escrementizio – nel senso deteriore del termine – del Tramonto della civiltà occidentale secondo Oswald Spengler: la fine della creatività nell’essere umano, e l’indagine punitiva dell’essere di genio la cui azione viene processata diventò allora per il medico Freud un pilastro del suo lavoro psicanalitico nella terapia proposta ai pazienti: ricondurre la creatività dell’artista di turno all’istanza superiore della Ragione, assurta a verità assoluta.
Non sono colto a differenza di Irving Stone, ma lo cito attraversato da una travolgente emozione tra gli stati misti dell’umore e i parossismi della pressione che m’impediscono quasi di vedere il 23 dicembre del 2021 a pag. 499 del libro “Il romanzo di Sigmund Freud. Le passioni della mente”: non c’è dubbio che l’interpretazione dell’Amleto da parte del medico viennese Sigmund, ha dato origine alla volgare patografia psicanalitica dell’opera d’arte che trovò in Cesare Musatti uno dei suoi più autorevoli interpreti in Italia: i cosiddetti “saputissimi ignoranti” che – ieri come oggi – fanno danni gravissimi; si veda il chiarissimo “Musatti contro Montanelli”, nell’archivio della psicologia italiana – a proposito della recensione del film “La fossa dei serpenti” del 1947 pubblicata su Il Corriere della Sera, che originava dalla tragica fine dell’attrice americana Frances Farmer rinchiusa in manicomio: Montanelli, il più grande giornalista del Novecento e l’erede di Luigi Albertini, scrisse un articolo perfetto su “The Snake Pit” ma uno dei padri della psicoanalisi freudiana quale appunto era Musatti lo accusava con “un volgare sensazionalismo, di essersi identificato inconsciamente con la principale protagonista del film”. “L’obiettivo dell’analista e dello psichiatra”, aggiungeva Musatti, “deve essere la guarigione,… appellandosi alla parte sana e razionale del paziente e procedendo all’esplorazione del suo inconscio”. Montanelli ci rimase così male, che dirà nelle sue battute immortali: “Non ho mai fatto e mai farò quella bischerata della psicanalisi!”. E’ però vero che Massimo Recalcati, invidiato dai suoi colleghi, ha messo in discussione l’“ingenua patografia” dell’opera d’arte nella prefazione alla nuova edizione de “Vincent Van Gogh, tra melanconia e creazione”. L’inconscio come taglio in atto che resiste alla significazione.
Gli psicologi, però, perseverano nell’arroganza. Gran parte di loro.
Scrive il gigante della letteratura inglese e mondiale Irving Stone a pag. 499 del suo libro “Il romanzo di Sigmund Freud. Le passioni della mente”:
“… I repressi ricordi dell’infanzia si erano aperto un varco, straripando e colmandolo d’angoscia. E appunto questo era il tormento di cui soffrivano tanti suoi pazienti.
Come avrebbe potuto curarli, guarirli, quando ancora ignorava l’origine del loro male?
Si rituffò nella lettura dell’Amleto, una delle opere che più gli erano familiari. Poi s’infilò il cappotto, prese il cappello, e uscì nel nevischio accecante. Tornò dalla lunga camminata sfinito dalla stanchezza, ma con la mente in fiamme, impaziente di mettere in scritto la verità che gli si era
rivelata. Sedutosi alla scrivania, spinse da parte un mucchio di appunti e aprì un suo taccuino:
“La stessa cosa può forse trovarsi alla radice dell’Amleto. Non penso ad una consapevole intenzione di Shakespeare, bensì suppongo che egli si sentisse spinto a scriverlo, prendendo lo spunto da un avvenimento reale, perché il suo inconscio comprendeva quello del suo eroe. Come ci si può spiegare quell’isterica frase di Amleto. “Così la coscienza ci rende vili”, e la sua esitazione a vendicare il padre con l’uccisione dello zio, quando lo si vede mandare con tanta leggerezza i suoi cortigiani alla morte e spacciare con tanta prontezza il suo amico Laerte? Quale spiegazione più convincente di questa: il tormento suscitato in lui dall’oscuro ricordo di avere egli stesso meditato l’uccisione del padre a causa della passione per la madre?” “Trattate ognuno secondo i suoi meriti: e allora chi mai potrebbe sottrarsi alla frusta?”. La coscienza di Amleto è il suo inconscio senso di colpa.”
Se William Shakespeare fosse stato un paziente di Sigmund Freud, avrebbe smesso di scrivere.
“Credono che io voglia attaccare loro, uno per uno, individualmente. Hanno l’impressione che io li vada accusando di crimini odiosi, mentre invece parlo di fenomeni che riguardano la natura umana in generale. Oltre non voler ammettere queste qualità in se stessi, non vogliono nemmeno ammetterne la presenza nell’umanità. Preferiscono tenere nascoste queste verità. Quasi tutte le forze esistenti nella società lavorano giorno e notte per romanticizzare i nostri istinti o per sottrarli alla conoscenza dell’uomo: la religione, il sistema educativo, i costumi assurti a leggi, i miti, la filosofia delle classi dominanti, le autorità governative, ancora simili a quelle dei tempi di Metternich, che censurava libri, riviste, giornali, spettacoli e tutto ciò che poteva esser detto in gruppi di più di tre persone. Solo gli individui più ignoranti non hanno nessuna nozione di ciò che avviene nell’inconscio; tutti gli altri desumono, da qualche indizio e da qualche ricordo, che in loro agisce una seconda mente, una seconda natura soggetta a repressioni. In questo senso sanno che ho ragione; e quanto è più forte il sospetto che io non m’inganni, tanto più violenti si fanno gli attacchi contro di me. Non perché io menta, ma proprio perché dico la verità, divento un individuo pericoloso”.
Qui c’è il nucleo della Weltanschauung di Freud, un weltanschauunger presuntuoso come tutti i visionari che emerge dal testo di Irving Stone.
Egli, però, non si rendeva conto di essere un figlio del Tramonto dell’Occidente, realizzando dichiaratamente un “processo alle intenzioni” a tutte le più importanti attività creative della civiltà occidentale che venivano ricondotte ad una primigenia motivazione inconscia. E’ naturale che la pubblica opinione di Vienna si sentisse attaccata e attaccasse (sic!): quando una civiltà è nella sua fase ascensionale, emancipante e non decadente, si fa guidare dal suo èlan vital, non lo analizza risalendone al “primum movens”!
“Ciò che è Io è mediante l’azione…”: Umberto Galimberti dixit ne “Il primato dell’azione e l’arretratezza della psicologia”.
Così come è volgare sostenere che l’Oedipus Complex, cioè il “complesso d’Edipo”, fosse il primum movens – nell’inconsapevolezza di Adam Smith – della sua opera magistrale “La ricchezza delle Nazioni”; eppure egli era legato da un rapporto morboso con la madre, e quando ella morì non si riprese più.
Veniamo così alla critica letteraria Parul Sehgal, nella sua requisitoria “Il fascino eterno e insensato del Grande Gatsby”: il complesso d’inferiorità di Scott nei confronti dei ricchi – superato dal “diniego” – avrebbe fondato la realizzazione mediocre del suo libro “Il Grande Gatsby” causandone gl’infiniti difetti e la mediocrità del suo contenuto – a dispetto della vera e propria “Gatsby mania” che imperversa dall’America all’Europa; vediamo come: “… Egli (Fitzgerald, ndr) era roso dall’amarezza e da un’invidia profonda nei confronti dei ricchi. Al suo agente un giorno scrisse: “Non sono mai stato capace di perdonare i ricchi per il fatto di essere ricchi e questo ha influenzato tutta la mia vita e le mie opere”.
Ma a scrivere ciò era quello stesso uomo che, da bambino, amava fingere di essere il figlio prediletto di un re medievale. Lo stesso uomo che si innamorò di Zelda perché sembrava una donna di lusso.
Chiacchiere, dicono i critici che vogliono meno ambiguità, meno luce della luna e posizioni morali più forti. Tranne quei critici (come la stessa Parul Sehgal che parla di sé in terza persona, ndr) che trovano oppressivo il moraleggiare e cercano la raffinatezza…”.
In un altro passaggio, la Sehgal osserva che questo sarebbe “il fascino insensato ed eterno del Grande Gatsby”: “… Fitzgerald era orgoglioso di quello che aveva realizzato. “Penso che il mio romanzo si possa definire il miglior romanzo americano mai scritto”: decantava.
Il libro, invece, lasciò perplessi i censori, e vendette poco.
“Nessuna delle revisioni, perfino la più entusiastica, arriva vagamente vicina a capire di che cosa parli il libro” scrisse Fitzgerald al critico Edmund Wilson. Questa questione resta irrisolta. Il libro era stato trattato come un diversivo carino, in fondo poco serio. In un saggio del 1984 pubblicato sul Times, John Kenneth Galbraith ebbe sentore che Fitzgerald fosse interessato alla classe in modo superficiale. “Ad attirare il suo interesse – scrisse – sono le vite dei ricchi, i loro divertimenti, le loro agonie, la loro presunta follia. Le implicazioni sociali e politiche gli sfuggono, proprio come egli sfuggì loro nella sua stessa vita”.
“Questa interpretazione”, dice la Sehgal, “è stata completamente ribaltata. Entrambe le nuove edizioni fanno luce sulla bellezza del libro: a essere così avvincente è il modo di trattare il grottesco (Morris paragona i personaggi alla Real Housewives). Entrambe avanzano la tesi secondo cui il valore sta tutto nella sua critica del capitalismo. Lee descrive Fitzgerald come “un sostenitore di Karl Marx” e scrive che Gatsby continua a essere “un romanzo moderno che indaga l’intreccio di gerarchia sociale, femminilità bianca, amore dell’uomo bianco e capitalismo sfrenato”. Anche per Morris, non c’è un vero rapporto amoroso tra Gatsby e Daisy, bensì “capitalismo come emozione”: Gatsby incontra Daisy quando è un soldato squattrinato, capisce che lei ha bisogno di maggiore agiatezza e così cinque anni dopo ritorna, quasi come una sua parodia (ma in realtà è la “Mano Invisibile” più che il capitalismo come emozione, ndr)”. Si tratta in verità di distorsioni interpretative alla Max Weber: trovare una spiegazione a tutto, senza capire niente.
Per citare Oscar Wilde nella Prefazione a The portrait of Dorian Gray, “… L’artista non desidera dimostrare nulla. Persino le cose vere possono essere dimostrate. Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico…”, e Francis sarebbe d’accordo.
Sconfina nell’arroganza la Sehgal quando osserva: “Con Il grande Gatsby la domanda è più semplice e più stravagante: Fitzgerald sa scrivere? Il suo libro è un capolavoro – quello che T. S. Eliot chiamò il “primo passo avanti che la fiction americana abbia mai compiuto dai tempi di Henry James” – oppure, come dice Gore Vidal, è l’opera di uno scrittore che “a malapena sa scrivere”?
Come Nick (Carraway, nda) si fa domande su Gatsby, così i lettori del suo romanzo si chiedono: quella che percepisco è superficialità oppure profondità prodigiosa? Come Daisy, il libro è irriso come grazioso e farraginoso. Come Nick è accusato di essere complice passivo, o anche peggio, dello spettacolo che sembra criticare. Perfino gli ammiratori del libro ne discutono tanto: il libro è bello, ma… può dirsi bellissimo?
Bellissimo, ma senza la bellezza della fiducia in sé e la perfezione di una gemma intagliata. E’ la bellezza di un testo infinitamente aperto, instabile, strisciante. Nell’impalcatura della sua pulita struttura in tre atti e delle sue simmetrie meticolosamente disegnate, spunta un connubio indisciplinato di rigido moralismo e selvaggia ambivalenza, la sua infatuazione e il suo disprezzo per la ricchezza, la sua empatia che procede insieme al desiderio di punirne i personaggi…”.
Tradotto: come dicevo prima, Parul Sehgal diventa arrogante: Fitzgerald sa appena scrivere, certo – aveva un disturbo specifico dell’apprendimento –, ma non è questa la smoking gun che egli era un genio?! Non è forse vero che Vincent Van Gogh sapeva appena disegnare?
“Successo e salute sono due cose diverse”, Marco Massa dixit; non solo: non si può determinare un nesso condizionalistico tra la vita dell’autore e la sua opera come se la seconda fosse condizionata dalla prima: l’opera è autonoma, è altra, è indipendente rispetto a chi l’ha generata e oltrepassa la vita dell’autore che si sente “straniero” o impostore rispetto a ciò che ha creato, può soffrire la sua stessa sconcertante indipendenza rispetto a ciò che ha fatto e che non è suo: vedi Romain Gary, che dopo aver inviato il proprio manoscritto al suo editore si tolse la vita.
E’ stato Massimo Recalcati a spiegarlo con parole, la cui bellezza è difficile eguagliare nella Prefazione alla quarta edizione de “Vincent Van Gogh, tra melanconia e creazione”:
“… Dopo la lezione strutturalista il testo d’arte non può più essere considerato come l’effetto della vita e della malattia del suo autore secondo un nesso deterministico che annulla l’autonomia dell’opera, ma il luogo dove si manifesta l’inconscio come taglio in atto, come ciò che resiste alla significazione, come sbarra che separa il significante dal significato producendo un effetto di enigma, realizzando una presenza irriducibile al senso già visto e già conosciuto. Questa presenza non è senza legami con la vita dell’artista – scaturisce indubbiamente da quella vita particolare – ma è anche ciò che oltrepassa quella vita. In questo senso l’opera realizza sempre una sproporzione, uno sfasamento, una eccedenza tra l’io dell’autore e la sua stessa esistenza che, come tale, sfugge all’io, oltrepassa le sue intenzioni, si rivela come straniera a chi l’ha generata. Questa eccedenza dell’opera rispetto alla vita significa che la biografia dell’artista non spiega l’opera, ma trova nell’opera la sua scrittura ultima. Il che inverte il rapporto ingenuo stabilito dalla patografia psicoanalitica tra vita e opera: l’opera non è un effetto deterministico della vita, ma è ciò che riscrive la vita retroattivamente. Questa rivoluzione copernicana negli studi psicoanalitici applicati all’arte, più ampiamente teorizzata nel mio Il miracolo della forma: per un’estetica psicoanalitica…”.
A mio modesto avviso sono parole da Premio Nobel.
Soprattutto se pronunziate da uno psicanalista che si allontana (per fortuna) dal freudismo piccoloborghese di Cesare Musatti e Riccardo Dalle Luche.
Torniamo a Scott Fitzgerald, che era un uomo pieno di difetti e afflitto da un disturbo narcisistico di personalità che ne destrutturerà progressivamente il talento; l’unico punto meritevole di attenzione positiva nell’analisi volgarmente freudiana della Parul Sehgal, è l’aver riportato i rilievi del grande economista americano John Kenneth Galbraith – che ebbe tra i suoi allievi John Fitzgerald Kennedy, futuro presidente degli Stati Uniti: “uno studente mediocre e brillante”, dirà di Jfk.
Galbraith, che era uomo di grande cultura, aveva osservato – stigmatizzandola – la presunzione di Scott che rifiutò ostinatamente di crearsi un background di studi umanistici, gettato alle ortiche la possibilità di laurearsi con la disapprovazione dei suoi stessi genitori e non accettò financo i consigli dei suoi insegnanti universitari poiché si considerava già arrivato alla méta finale, ma non riuscì mai a correggere la “hybris dell’autodidatta” che pure non ne impedì lo straordinario successo (sic!). Galbraith lo spiegò bene – repetita iuvant – in un saggio pubblicato nel 1984: “Ad attirare il suo interesse sono le vite dei ricchi, i loro divertimenti, le loro agonie, la loro presunta follia. Le implicazioni sociali e politiche gli sfuggono, proprio come egli sfuggì loro nella sua stessa vita”.
Giudizi di grande acutezza da parte di un grande economista, non c’è che dire. Ma Fitzgerald era innamorato dell’immagine del suo personaggio da “icona” della Gilded Age dei Robber Barons – un sogno condiviso insieme alla fragile, viziata e senza talento Zelda Sayre: nulla poteva intrudere con la sua “campana di vetro” del cosiddetto “falso Sé vincente”, almeno prima del “grande (fallimento) Gatsby” (che appare davvero la sua autobiografia) – vedi la provocazione della raffinata critica letteraria Claudia Scavo.
Tutto questo – all’interno della fenomenologia dello sfacelo della star borderline e tossicodipendente – non gli ha impedito di scrivere un’opera immortale, e dalla bellezza infinita quale The Great Gatsby – pur non valutando il suo talento come una risorsa sulla quale investire.
E’ il miracolo della forma, come direbbe Recalcati.
Infatti scriverà alla figlia Scottie: “Non sono un grand’uomo, ma penso che nella qualità del mio talento, e nel sacrificarlo, vi sia una specie di grandezza epica”.
Come Francis ha descritto la personalità del romantico delinquente James Gatsby al suo primo incontro con lo scrittore fallito Nick Carraway – che ne appare davvero l’eteronimo per mezzo della “proiezione” –, nel castello di Long Island dove organizzava delle grandi feste con i soldi sporchi dell’alcol venduto insieme a Meyer Wolfsheim, è semplicemente perfetto: “Sorrise con aria comprensiva, molto più che comprensiva. Ero uno di quei sorrisi rari, dotati di un eterno incoraggiamento, che si incontrano quattro o cinque volte nella vita. Affrontava, o pareva affrontare l’intero eterno mondo per un attimo, e poi si concentrava sulla persona a cui era rivolto con un pregiudizio irresistibile a suo favore. La capiva esattamente fin dove voleva essere capita, credeva in lei come a lei sarebbe piaciuto credere in sé stessa, e la assicurava di aver ricevuto da lei esattamente l’impressione che sperava di produrre nelle condizioni migliori. Esattamente a questo punto svaniva, e io mi trovavo di fronte a un giovane elegante che aveva superato da poco la trentina e la cui ricercatezza nel parlare rasentava l’assurdo”.
Com’era vero del resto anche del gangster Bugsy Siegel, che fondò Las Vegas, un impero nel deserto: aggiunge chi scrive.
Ma per Parul Sehgal, questo sarebbe “il fascino eterno e insensato del grande Gatsby”.
Anzi, Fitzgerald sapeva appena scrivere (sic!).
Oggi va di moda cogliere brutti significati nelle cose belle: ma “soltanto le persone corrotte senza essere affascinanti scorgono brutti significati nelle cose belle”, tanto per citare Oscar Wilde.
Sehgal commette lo stesso errore di prospettiva degli psichiatri piccoloborghesi Riccardo Dalle Luche e Liliana Dell’Osso, i quali considerano nel loro testo “L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi di un cold case” edito da Le lettere Il Ritratto di Dorian Gray parte della stessa malattia del suo autore Oscar Wilde, e il talento tout court come l’altra faccia della patologia psichiatrica da curare: “… Questa possibilità si fonda sul riferimento al cervello come organo fornito di estrema variabilità individuale e molteplici elementi di atipicità rispetto a un ipotetico e teorico cervello ideale. L’atipicità può sottendere alla presenza, da un lato, di talenti particolari e speciali (ad esempio matematico o musicale), dall’altro, invece, di elementi disfunzionali, che finiscono per manifestarsi con dei disturbi psichici. Non è infrequente, ed è una delle tesi di questo libro, che, com’è accaduto a Marilyn Monroe, l’una e l’altra cosa coesistano. Ogni clinico con una certa esperienza ha conosciuto numerosi pazienti che grazie ad alcuni tratti particolari hanno raggiunto elevati livelli di funzionamento e successo e, a causa di quegli stessi tratti, hanno poi finito per ammalarsi e distruggere il loro talento o le loro fortune. Restando nell’ambito degli esempi cinematografici, si veda la storia del cittadino Kane nel celebre Quarto potere di Orson Welles. Ma anche i gravi disturbi mentali di molti rampolli delle dinastie regnanti (ad esempio Ludwig di Baviera), di molti uomini politici (Mussolini, Togliatti)… e di industriali di oggi, dimostra come la genetica delle malattie mentali sia strettamente connessa a quella che favorisce l’originalità e il successo…”.
E infatti, a pag. 137 del capitolo “Essere un altro: la maschera, il doppio, l’attore”, gli autori osservano in linea con queste premesse: “… Un altro testo importante sul tema del “doppio”, anche per quanto riguarda la psicopatologia di Marilyn, è Il ritratto di Dorian Gray, emblema
novecentesco del narcisismo patologico, con molti aspetti profetici relativamente all’attuale mondo dell’immagine e dell’apparire, in cui l’icon show ha sostituito l’inconscio. Si tratta, com’è noto, dell’unico romanzo di Oscar Wilde che, al di là delle celebri battute e paradossi, nasconde una tematica tragica, con la quale Wilde farà i conti nelle opere scritte in carcere, come il poema La ballata del carcere di Reading o il De Profundis… Nella Londra aristocratica, è un ritratto nascosto in soffitta ad accumulare i segni del tempo e delle malefatte di Dorian, un bellissimo giovane gaudente, narcisista e amorale, che riesce così, per un tempo innaturalmente lungo, a mantenere intatta la splendente bellezza, la giovinezza e un’immagine sociale irreprensibile…”.
Ma The Portrait of Dorian Gray non è pars construens della stessa malattia mentale di Oscar Wilde che per un certo momento lo avrebbe sostenuto benignamente, e poi lo avrebbe travolto.
Non si deve confondere Oscar Wilde con la sua creazione!
Ps – Soltanto le persone corrotte processano il mysterium divinis delle cose belle, come Parul Sehgal, Riccardo Dalle Luche e Liliana Dell’Osso tra gli altri, forse lo stesso Sigmund Freud.
“Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono le persone colte. Per loro c’è speranza. Essi sono gli eletti: per loro le cose belle significano solo bellezza”: parola di Oscar Wilde. A futura memoria.
di Alexander Bush