Benedetto Croce continua ad essere d’attualità a 150 dalla nascita
Benedetto Croce, a 150 anni dalla nascita, potrebbe anche dirsi “l’uomo che piantava gli alberi”, parafrasando il tema del racconto di Jean Giono del 1980, storia di un contadino che giorno dopo giorno, silenziosamente, ripopola una montagna della Provenza.
Se ne è parlato a Firenze in un convegno della Fondazione Spadolini, al Pian de’ Giullari; ad Andria, per la Società di Storia Patria, e Trani, nella Biblioteca “Bovio”. Tornano, così, al centro del dibattito le fondazioni di tante scoperte e ricerche: l’autonomia dell’arte; il rinnovato interesse per Giambattista Vico, “primo scopritore della scienza estetica” e tema delle fondamentali
monografie del Croce, da cui molti han ripreso successivi spunti di riflessione e persino d’immotivata polemica; il rapporto di “contenuto” e “forma” a proposito dell’ “interessante” in arte, fino alla pubblicazione del carteggio iniziale tra Croce e Gentile nel “Giornale critico della
filosofia italiana” diretto dal Garin, e alle felici postille di Eugenio Montale; gli studi sul “secentismo”, commentati da Vittorio Stella e
Gennaro Sasso. Croce si rivela “scopritore” anche del Seicento: di Federico Della Valle e della tragedia; Giambattista Basile e lo “Cunto de li cunti”, poi rieditato con ammirazione per il senso del celeste da Italo Calvino; Torquato Accetto e il trattatello “Della dissimulazione onesta” (utilizzato da italianisti e francesisti illustri come Corrado Rosso e Giovanni Macchia, filologi come Salvatore S. Nigro, interpreti della
“Geometria delle passioni” qual Remo Bodei e Umbero Eco ne “L’isola del giorno prima”).
Senza l’alberello piantato da Croce, non sarebbe potuta nascere la “foresta” con ricca vegetazione di complemento. L’immagine batte alla mente a paragone della tutela del bosco di Sant’Antonio negli Altipiani delle Cinquemiglia, in Abruzzo, del resto collegata alla idea “Pro Italia Nostra” di Cesare De Lollis e alla fondazione del gran Parco
Nazionale; e alla recente rivisitazione della “Pala del Ventilato in Crusca”, opera di Roberto Di Jullo per l’accademico Francesco Sabatini. La
“Pala” rappresenta in primo piano la figura di un contadino che alza una pala piena di grano, perché il vento ne rimuova la pula, all’insegna del
soprascritto motto petrarchesco “L’aura mi volve, et son pur quel ch’ i’era”. Sullo sfondo si vede il bel paesaggio proprio dell’ Altipiano, nelle montagne abruzzesi, comprensivo di Pescocostanzo, natìo loco non solo di Francesco Sabatini, ma anche del di lui genitore, studioso di storia patria e delle vicende urbanistiche di “Pesco”. Del resto, la pula che si muove in aere ci vuol sembrare – essa pure – immagine della “vitalità”, la categoria forse più importante nell’ultima fase del pensiero crociano,
come “Ursprung” e modo fondante dell’intiera vita spirituale. E il rimaner “pur quel ch’i’ era” allude alla costanza dei princìpi spirituali, forti
perché fondativi, anche quando paiono labili o deboli: specie nella difficile stagione – che attraversiamo – che indulge al “relativismo”, che
non sia “Escape from Man”, o “Fuga dall’ Umano” e”Fine della Civiltà”.
A queste riflessioni sollecita la “armonia di Pescocostanzo”, dal palazzo Sabatini alla piazzetta con fontana e Palazzo Fanzago, grande architetto
da Clusone sceso a operare nel Centro e Mezzogiorno d’Italia.
Giuseppe Brescia