Home LibertatesTribuna La Voce Dei Liberali SIGMUND FREUD NON ERA ASPERGER: IRVING STONE CONTRO LILIANA DELL’OSSO

SIGMUND FREUD NON ERA ASPERGER: IRVING STONE CONTRO LILIANA DELL’OSSO

0
246


Dedicato alla memoria di Bruno Orsini, un maestro
No alla diagnosi precoce della Clinica psichiatrica di Pisa

“E quindi, professoressa Dell’Osso, mi sta diagnosticando
una leggera forma di autismo? Tutto sommato, stando a quanto mi
dice, potrebbe anche essere. (Sorride) Bello essere psichiatri nel
terzo millennio, mi sarebbe piaciuto…”
“Un’intervista impossibile a Sigmund Freud”, di Liliana Dell’Osso e Primo Lorenzi

Don’t shoot the pianist, when he’s doing the best he can. Non ammazzare il pianista quando sta facendo del suo meglio.
E’ stata data alle stampe la inquietante – in senso positivo e negativo – monografia lombrosiana “Genio e follia 2.0 – Il complesso rapporto fra spettro autistico e competenze eccezionali” edita da Franco Angeli editore, con la prefazione di Mario Maj e “Con un’intervista impossibile a Sigmund Freud” scritta a quattro mani da Liliana Dell’Osso e Primo Lorenzi: Libertates, per le ragioni che presiedono alla fondazione del suo stesso statuto – garantire e difendere le libertà dell’individuo da ogni forma di totalitarismo – non può non occuparsene.
L’intero testo che ha la pretesa di definirsi “scientifico” mentre sarebbe più corretto definirlo psichiatrico, propone la cosiddetta “diagnosi precoce” ai ragazzini e alle ragazzine tra gli 11 e i 15 anni in pieno Eden della pubertà come punctum dolens del procedimento terapeutico della dottoressa Liliana Dell’Osso, direttrice della Clinica Psichiatrica di Pisa: se ne parla soprattutto, da parte degli autori, nell’ultima parte del libro “Con un’intervista impossibile a Sigmund Freud”.
Perché proporre la “diagnosi precoce”? Per diagnosticare, appunto, un eventuale “spettro autistico sotto soglia” negli infanti della pubertà, carichi di “pensiero divergente” – affermano gli autori – che però è uno stato limite, cioè di tipo sub-clinico e/o tale da sfociare nella patologia psichiatrica – così da rendere necessario l’intervento medico precoce (che poi in molti casi precede il trattamento del litio in questi giovani adulti che si affacciano al mondo ancorchè in itinere).
Gli autori formatisi a Pisa (che non è Parigi) osservano nelle loro considerazioni conclusive: “Il facile (talvolta obbligato) accesso al pensiero divergente, un originale mix di iper – e ipo-competenze, capacità mnemoniche particolari, una diversa sensorialità, tutto questo ed altro ancora ci appaiono come una scia di “doni” lasciati da una presenza particolarmente marcata di quello spettro autistico, distribuito linearmente nella popolazione generale… Dono o condanna – spesso dono “e” condanna – che immette queste persone in un percorso esistenziale fuori dal consueto…”. E che può incontrare severe censure sociali contro i Divergent people di vario calibro.
Ecco perché fare la “diagnosi precoce”, che oltretutto determina un effetto vulnerante in termini di autostima sul “ragazzino prodigio” ad essa sottoposto (o ragazzina): vengono loro tarpate le ali, durante il massimo sviluppo delle cosiddette “onde teta” (vedi Daniel Goleman, a proposito della fantasia al galoppo soprattutto nei bambini e negli adolescenti che non ricevono diagnosi di autismo nella liaison tra l’infanzia e l’adolescenza): “… Si tratta di soggetti che non ricevono la diagnosi di autismo nell’infanzia e nell’adolescenza perché non lo sono, ma hanno dei tratti che si riassumono in difficoltà nei rapporti inter-personali (pensi a Steve Jobs), ma soprattutto un interesse circoscritto per un unico argomento: il cosiddetto pallino, che loro portano avanti nella vita, che diventa il focus. Fino a consumarli”. Liliana Dell’Osso dixit al Tg1 Approfondimento.
Orbene, qua è in gioco la libertà dell’uomo che viene pregiudicato nella possibilità di autodeterminarsi.
Infine, ne un’“Intervista impossibile a Sigmund Freud”, la psichiatra Liliana Dell’Osso legittima con quest’argomentare obiettivamente reazionario la ratio della famigerata “diagnosi precoce” – facendo finta di dialogare con Sigmund Freud – che informerà purtroppo l’indirizzo generale della psichiatria italiana nei prossimi anni:

“… LDO: (Con tono professorale) Vede, una delle principali funzioni alterate nel cervello neuroatipico è quella della reciprocità socioemotiva: si ha difficoltà nel comprendere le emozioni e le intenzioni dell’altro. In particolare, comprendere i messaggi non verbali di chi si ha di fronte sulla base dello sguardo – cosa per i neurotipici è immediata ed anzi è il veicolo primario della comunicazione, ancor più di quello verbale – per un neuroatipico può essere molto complesso e richiedere un lungo periodo di apprendimento.
Ma, anche una volta appreso come interpretare la mimica degli altri e come modulare la propria sulla base di quanto è atteso dal contesto sociale, il disagio nel contatto oculare, che dovrà passare da un controllo cognitivo ed essere artificialmente calibrato di volta in volta, resterà comunque. E la neuroatipia può essere un fattore predisponente all’esposizione a traumi e ai disturbi mentali, in particolare ai quadri post-traumatici da stress, per una ipersensibilità ai traumi stessi – sia perché comporta strategie di adattamento meno efficaci, sia per la maggior difficoltà a processare ed esprimere le reazioni emotive connesse all’evento, dovute alla compromissione delle abilità comunicative tipiche dello spettro autistico. E’ facile infatti immaginare come, a causa di comportamenti incongrui o inadeguati al contesto, possono aumentare le probabilità di andare incontro a traumi, in primis quelli di tipo sociale. Le conseguenze possono spaziare dalla semplice gaffe con un interlocutore che viceversa avremmo voluto compiacere, all’esclusione dal gruppo di appartenenza, all’essere vittima di forme di violenza, fisica e mentale. (Quasi per farsi perdonare) Vero Giano bifronte, la neuroatipia stessa è una condizione necessaria per mantenere l’indipendenza di giudizio e la concentrazione indispensabile per svolgere compiti di alto livello. Il pensiero divergente, il concentrarsi sui dettagli (trascurati da chi è più abile nel trarre dalle informazioni ambientali visioni di insieme utili nelle situazioni pratiche), la tendenza alla ruminazione mentale, premessa indispensabile per la creatività in tutti i campi, compresa la ricerca scientifica (ed anche l’autoanalisi!) fanno parte dello spettro autistico. Da questo è scaturita la spinta che ha permesso in molti casi all’umanità di evolversi. Pensi a Leonardo da Vinci o al suo contemporaneo Albert Einstein. Ma a lei stesso, mi perdoni! “Un uomo come me non può vivere senza una mania, una passione divorante o, per dirla con Schiller, senza un un tiranno. Io ho trovato il mio tiranno e, per servirlo, non conosco limiti. E’ la psicologia”. L’ha detto lei, no? Solo un Asperger può fare una simile affermazione!
SF: Ma lei è venuta con l’intenzione di discutere le mie tesi o di propormi una diagnosi? E’ a tratti molto ambigua su questo, lo sa?…”.

Certamente la professoressa Dell’Osso si compiaceva della sua ambiguità.
Ma la sua ipotesi è falsa: Sigmund Freud non era Asperger, poiché non perseguì monomaniacalmente un interesse circoscritto per un unico argomento, per tutta la vita: la psicologia (non bisogna vedere l’eteronomia del comportamento, laddove c’è l’autonomia);
“He wasn’t one track mind”: S.F. non era un “Idiot Savant”, a differenza di Marilyn Monroe, Frances Farmer o Srinivasa Yengar Ramanujan; questo punto di centrale importanza è stato raccontato – magnificamente, è il caso di dire – da un gigante della letteratura come Irving Stone nel suo libro eccezionale “Le passioni della mente. Il romanzo di Sigmund Freud”, di cui chi scrive ha letto gustandole le prime 620 pagine.
Verranno pubblicati qua interi passaggi fondamentali dal punto di vista pedagogico e stilistico insieme dell’opera magistrale di Irving Stone, che fa capire molto bene (è per questo che il diagnosta Romolo Rossi imperniava la psichiatria sulla letteratura), che la monomania devastatrice è una scelta, più che una malattia mentale “descendit de coelis”: piombata dal cielo sul “disgraziato” di turno.
Ma prima è una scelta patogena e poi diventa disturbo mentale invalidante. Vediamo come, illuminati d’immenso dalla Weltanschauung di Irving Stone:

“LA TORRE DEI PAZZI – Salivano vigorosamente il sentiero, muovendo in ritmica cadenza le snelle figure giovanili. Nel prato vicino, fiori gialli crescevano tra l’erba bassa. Gli anemoni, con i loro petali di seta, erano morti fin dai giorni di Pasqua; ma eriche primaverili, margherite e rose canine intessevano sotto i faggi un tappeto ricco di colori.
Non alto (raggiungeva a stento il metro e settanta quando si teneva ben eretto), egli si sentiva tuttavia della statura giusta per la ragazza che con tanta grazia gli camminava accanto. Sbirciò timidamente il profilo di Martha Bernays, notando la linea energica del mento, del naso e della fronte. Non riusciva quasi a persuadersi di quanto era accaduto. Eccolo qua, appena ventiseienne, profondamente immerso nelle sue ricerche fisiologiche dell’istituto del professor Brucke, e dieci prima di potersi sposare. Per quanto in chimica fosse stato uno studente mediocre, non avrebbe dovuto imparare che tra l’amore e i piani di studio nessuna mescolanza è concepibile?…”.

“Da quanto tempo è all’Università? “Da quasi nove anni”. “Ricorda il giorno in cui andammo al Prater con mia madre? Al ritorno chiesi a mia sorella Minna: “Chissà perché il dottor Freud mi ha rivolto tante domande?”.
“Mi parli del suo lavoro (Martha Bernays, ndr). Non è che io voglia essere curiosa, ma so soltanto che è occupato nel laboratorio fisiologico del professor Brucke”. Adesso tocca a me. Lei è medico, ma non esercita la professione. Perché?”
“Ho la mia brava laurea, certo, anche se non ho avuto fretta di conseguirla. Ci ho messo tre anni in più del necessario e infine mi sono deciso a prenderla unicamente perché i miei conoscenti all’Università cominciavano ad accusarmi di pigrizia o di dispersione”.
“Sembra invece una persona molto concentrata”.
“Soltanto in ciò che mi va a genio. Ho studiato per cinque anni alla Facoltà di medicina perché quello era il miglior modo di compiere un buon tirocinio scientifico: la nostra Facoltà non ha probabilmente l’uguale in Europa. Negli ultimi anni ho continuamente lavorato nell’istituto di fisiologia del professor Brucke, che con Helmoltz, Du Bois e Ludwig è uno dei fondatori della fisiologia moderna. Sotto la sua guida ho quasi portato a termine quattro ricerche originali e pubblicato le relative relazioni. Nel 1877, quando non avevo ancor ventun anno, ho scritto uno studio sull’origine delle radici posteriori dei nervi nel midollo spinale degli ammoceti; l’anno seguente ho pubblicato un resoconto delle mie scoperte sui gangli spinali della lampreda; e l’anno dopo, nel Centralblatt fur die medizinische Wissenschaften sono uscite le mie note su un metodo per la preparazione anatomica del sistema nervoso”.
Martha sorrise, divertita da quel miscuglio di esuberanza giovanile e di precisa fraseologia tecnica…”.

C’era un po’ di “manierismo stereotipo” e di grottesca “hybris dell’autodidatta” alla Benito Mussolini nel giovane Freud – Benito, quando si atteggiava da narciso di provincia già arrivato alla meta finale divertiva la colta Margherita Sarfatti, ignorandone però i preziosi consigli: un errore che gli costò caro per tutta la vita; il giovane Sigmund credeva di essere già arrivato all’Olimpo degli Dei idealizzandosi come un grande scienziato – tra i più grandi sulla faccia della Terra! –, eccellendo però soltanto in ciò che gli piaceva fare.

“La sua voce risuonava in tutto il giardino, la faccia gli sfalliva d’entusiasmo, gli occhi scuri brillavano d’eccitazione…
“… Ma la prego di non fraintendermi: io non credo di essere un Koch, un Pasteur o un Semmelweis. Le mie ambizioni sono molto più modeste…”.

Ecco a voi un caso di narcisismo patologico. Sigmund vedeva l’orizzonte saltando il porto, quasi come Icarus. Credeva di essere nato imparato, innamorato com’era della propria neuroatipia. Ma ecco che il sogno e la realtà si sarebbero presto scontrati a somma zero, in maniera esattamente identica al caso del giovane Adolf Hitler degli “Anni di studio e di dolore a Vienna” “armato di grossi rotoli di disegno”, prima dell’inattesa bocciatura all’Accademia delle Arti (sono stupendi gli scritti autobiografici di Hitler nel Meinkampf!). Sarebbe arrivata per Sigmund l’umiliazione della “Castrazione del Padre sulla libertà del folle” (Jacques Lacan).

“… Il colloquio di stamattina col professor Ernst Wilhelm Ritter von Brucke sarebbe stato decisivo. “Perché l’ho rimandato tanto?”, si domandò. Ma la ragione gli era perfettamente nota. Da lungo tempo aveva preso il proprio partito: … prima assistente di Brucke, poi libero docente (“privat dozent”, ndr), quindi professore straordinario e infine Herr Hofrat, ossia professore ordinario, e capo di un istituto, come Brucke in quello di fisiologia, e il famoso Theodor Meynert nella seconda clinica di psichiatria…”. (SIGMUND INFATTI RIMANDAVA IL COLLOQUIO CON VON BRUCKE PERCHE’ SOTTO SOTTO, TEMEVA CHE LO STESSO NE AVREBBE VULNERATO “L’AUTOELEVAZIONE DIFENSIVA” POTENZIALMENTE INFINITA, DI CUI PARLAVA IL PROFESSOR RICCARDO DALLE LUCHE IN RELAZIONE AD ADOLF HITLER!, ndr)

Sigmund sognava a occhi aperti, quando annunciò al suo collega di università Ernst tra le nuvole dell’ipomania: “… – Ora vado dal professor Brucke per avere appoggio in una decisione di grande importanza. Se faccio cilecca, mi getterò dal Leopoldsberg a testa in giù… col tuo nome e il tuo indirizzo in tasca”.

Scherzi a parte, quando il matematico indiano Srinivasa Iyengar Ramanujan non venne appoggiato dall’insegnante di Cambridge Lord Godfrey Harold Hardy nell’ambizione di vedere pubblicati subito – saltando la necessaria gradualità – i suoi quaderni sulle equazioni, tentò il suicidio buttandosi tra le rotaie della Metropolitana di Londra. Torniamo all’imprescindibile osservatorio letterario di Irving Stone, così diverso dagli studiosi italiani rovinati dal loro provincialismo e dalla loro mentalità catto-comunista:

“Busso’ (Sigmund, ndr) allo stipite della porta ed entrò.
“Gruss Gott”.
“Gruss Gott. Her Professor Brucke, potrei parlarle un momento a quattr’occhi?”
“Ma certo, collega!”.
Sigmund ebbe un fremito di gioia: Brucke l’aveva chiamato collega. Finora era accaduto una volta sola, quando l’illustre docente era stato colpito dal suo lavoro sulla preparazione anatomica del sistema nervoso centrale dei vertebrati superiori. Era il più bel complimento che un capo d’istituto potesse rivolgere ad un povero preparatore che guadagnava pochi Kreutzer al giorno…
“… Sigmund sapeva che sarebbe toccato a lui dare inizio a questa difficile conversazione: il professore aveva perso l’abitudine di discorrere fin dai tempi della gioventù, e non l’aveva più ricuperata.
“Herr Hofrat, nella mia vita è sopravvenuto un cambiamento. Solo domenica scorsa la ragazza che amo mi ha fatto un accenno… E’ stata una cosa improvvisa, sono stato colto di sorpresa… Certo, non siamo ancora fidanzati… Ci vorranno ancora anni, prima che ci sposiamo… Ma quella è la donna da cui sono convinto che dipenda la mia felicità…
“Congratulazioni, Herr Doktor”.
“Herr Hofrat, so che mi giudicherà un adulatore se dico che nel suo laboratorio ho trovato tutta la soddisfazione possibile, e uomini degni di rispetto: lei, il dottor Fleischl e il dottor Exner…”. (la Dell’Osso direbbe: Freud tenta di manipolare narcisisticamente il professor Brucke, ndr)
Brucke si tirò il berretto un po’ più in basso sulla fronte: gesto che gli era abituale quando non trovava nulla da rispondere. Sigmund trasse un profondo respiro e si rituffò nello spinoso argomento.
“Per fidanzarmi e per prendere in seria considerazione l’idea del matrimonio, bisogna che io abbia una posizione e la possibilità di migliorarla gradualmente, qui all’Università, con il mio lavoro. Sarebbe disposto a raccomandarmi alla Facoltà per la nomina a suo assistente? So che debbo cominciare modestamente, ma qui avrò modo di dare un contributo degno del suo insegnamento e della fiducia che ripone in me”.
Brucke taceva. Sigmund ebbe la sensazione che frammenti di frasi si formassero nella sua mente e venissero via via scartati. Studiò la faccia più o meno ben rasa del professore, con quegli zigomi fortemente rilevati, le labbra carnose, il mento tondeggiante, gli occhi tuttora belli nonostante l’età.
Talvolta gli era accaduto di pensare che Brucke fosse un uomo dalle passioni veementi, impegnato in una costante battaglia per tenere a freno i propri sentimenti.
“Cominciamo dal principio, Herr Doktor. Vorrebbe essere mio assistente? Certamente. E posso io assumerla come tale? No”.
Sigmund ebbe la sensazione che qualcosa gli piombasse giù nel petto. Un pensiero gli attraversò, rapidissimo, la mente: “Come fisiologo, dovrei sapere da che cosa è prodotta questa sensazione. Ma non lo so”. Disse: “Perché non può raccomandarmi, Herr Professor?”
“I regolamenti della Facoltà di medicina non me lo permettono. Agli istituti sono consentiti due soli assistenti. Per indurre il ministero dell’Istruzione ad aggiungerne un terzo occorrerebbero anni di insistenze…”
Sigmund fu assalito da un senso di malessere. Conosceva già questa disposizione e si era illuso?
“Sicchè, qui non c’è posto per me?”
“Né Flischl né Exner lasceranno mai l’istituto. Finchè io muoia e uno di loro possa succedermi, dovranno continuare qui come miei assistenti… col loro modestissimo stipendio”.
“Ma non potrebbero essere chiamati all’Università di Heidelberg, o di Berlino, o di Bonn… ?”.
Brucke si alzò e, aggirando l’estremità del tavolo, venne a piantarsi davanti al suo prediletto allievo.
“Caro amico – gli disse con voce cordiale e gentile – non ci troviamo di fronte ad un problema molto più profondo che quello di ottenere una nomina ad assistente qui?
Nelle condizioni presenti, la pura ricerca scientifica è per i ricchi. Gli Exner e i Fleischl nuotano nell’abbondanza da generazioni; non hanno bisogno di guadagnare. Lei mi ha parlato dello sforzo che suo padre ha dovuto sostenere per mantenerla in tutti questi anni d’Università.
La situazione a casa è migliorata?”
“No, si è anzi fatta più difficile. Mio padre invecchia. Bisogna che io cominci ad aiutare i miei genitori e le mie sorelle”.
“E allora, Herr Doktor, non ne consegue che le conviene prendere un’altra strada? Anche se io la spuntassi facendo pressioni sul ministero, lei dovrebbe lavorare per i primi cinque anni con un compenso irrisorio. Solo a una certa età comincerebbe a guadagnare di più. A meno che nel frattempo Exner e Fleischl muoiano entrambi e la Facoltà affidi a lei la direzione dell’istituto, invece di andare a cercare altrove una celebrità”.
Tutto si oscurò intorno a Sigmund, come se una seppia gli avesse schizzato il suo inchiostro negli occhi. Brucke era all’Università di Vienna da trentatrè anni: un tempo sufficiente per consentirgli di riconoscere questa particolare forma di amarezza. Perspicace com’era, la intuì”.

Paragonare Freud a Hitler nella frustrazione del “bel sogno d’arte” degli “Anni di studio e di dolore a Vienna” non è stravagante: qua le somiglianze sono eccezionali.

“No, collega! Non si tratta di antisemitismo. Parecchi docenti della nostra Facoltà sono ebrei. Certi clubs studenteschi, sì, ma nessuna scuola medica di prim’ordine, come questa, può reggersi sull’immondizia dei pregiudizi religiosi. L’infelice attacco del professor Billroth, che io sinceramente deploro, è stato un’eccezione”.
Sigmund ricordò un capitolo dell’opera di Billroth, Le scienze mediche nelle Università tedesche, in cui venivano aspramente criticati gli studenti ebrei. Intanto il professor Brucke, con un calore e una facondia in lui insoliti, diceva: “… Io ero le tre cose che la cattolica Austria detesta di più: protestante, tedesco, prussiano. Eppure, dopo un anno fui eletto membro dell’Accademia delle Lettere. Per la prima volta nella storia dell’Austria un tedesco fu fatto decano della Facoltà di medicina, e poi rettore dell’Università. Lei è troppo intelligente per cercar rifugio nel pensiero dell’antisemitismo” (il rilievo di Irving Stone è fondamentale, magico: si vedono i complotti per non cambiare! Così come Srinivasa Ramanujan denunciava un inesistente antisemitismo all’Università di Cambridge contro di lui, se non accoglieva “a fortiori” le proprie smisurate ambizioni, ndr).

“Grazie, Herr Hofrat. Ma se non posso guadagnarmi da vivere qui, che cosa devo fare? Non c’è un altro settore dove possa…”.
Brucke scosse la testa, si tolse il berretto e si asciugò il sudore della fronte. Solo allora Sigmund si accorse che anche lui era sopraffatto dall’emozione. Il professore andò alla finestra e vi rimase alcuni istanti, voltandogli la schiena massiccia e fissando l’angolo della Berggasse, dove l’ampia via scendeva verso il Kai e il Danubio. Giungeva dalla strada la cantilena d’una donna di campagna che aveva la testa coperta da uno scialle: “Lavanda! Chi vuole la mia lavanda?”.
Quando Brucke si voltò, i suoi begli occhi avevano nuovamente un’espressione seria.
“Lei deve fare ciò che fanno tutti i giovani medici privi d’una rendita. Esercitare la professione. Curare i malati…”.
“Non mi va. Non ho mai avuto quest’intenzione. Ho intrapreso gli studi di medicina soltanto per diventare uno scienziato. Bisognerebbe avere le attitudini, il sentimento per i malati…” (“Non mi va”: come disse Sigmund Freud a Martha Bernays, “faccio bene solo ciò che mi va genio”: ecco il disturbo narcisistico di Sigmund confessarsi tout court!, ndr)
Brucke tornò a sedersi e si rimise la coperta sulle ginocchia, benchè nella stanza facesse un caldo che a Sigmund pareva soffocante.
“Herr Doktor, esiste davvero un’altra via, se lei vuole sposarsi? La signorina ha una dote?”
“Credo di no”.
“Lei deve tornare all’Allgemeine Krankenhaus e compiere un più completo addestramento in tutte le discipline, per diventare un professionista veramente abile destinato al successo. E’ un giovane, si adatterà facilmente. Non le occorreranno più di quattro anni di esperienza d’ospedale per conseguire la sua brava Dozentur e poter mettere fuori la sua targa. Vienna ha bisogno di buoni medici”.
“Grazie, Herr Hofrat – mormorò Sigmund. – Gruss Gott”.
“Servus”.

Sante parole: qui viene in mente Pablo Picasso: “Impara le regole come un professionista affinchè tu possa infrangerle come un artista”.
Il professor Brucke mi ricorda intensamente Bruno Orsini, il relatore della cosiddetta “Legge Basaglia 180”. E non senza una certa emozione.

Sigmund era frustrato quanto il giovane Adolf che si era fatto ricevere dal rettore dell’Accademia delle Belle Arti a Vienna:

“S’avventò alla cieca su per la Wahringer Strasse; passò davanti ad un’entrata laterale dell’ospedale, normalmente usata dagli studenti, dai medici e dagli inservienti; al di là dell’arcata dell’ingresso vide profilarsi, edificio circolare di pietra a cinque anni, la Torre dei Pazzi.
“Ecco il posto dove dovrei essere io – borbottò tra sé. – In una di quelle celle, incatenato al muro. I matti non dovrebbero esser lasciati in giro”.
Camminare per Vienna non era più un piacere. Ogni lastra di pietra e ogni sasso gli laceravano le piante dei piedi; i caotici pensieri e le furiose recriminazioni gli ammaccavano quel sistema nervoso centrale che egli era stato così bravo nel mettere allo scoperto negli animali del laboratorio.
“Sappiamo – gli venne fatto di pensare – che la vista è controllata dal lobo occipitale e le percezioni del suno dal lobo temporale. Io sono certo il tipo più indicato per scoprire quale lobo controlla la stupidità!”.
Proseguì per la Hirschengasse e la Grinzinger Allee, puntando verso il Wienerwald, dove generazioni di viennesi avevano sfogato le loro allegrie e disperso le loro tristezze vagando tra gli alberi.
Il villaggio di Grinzing, con le sue Hausfrauen dal canestro appeso al braccio, s’inerpicava su per la collina ridente di vigneti, di peschi e di albicocchi. Le osteriole avevano ghirlande di sempreverdi sopra la porta, per indicare che vi si poteva bere il vino nuovo in giardino, sotto i castani: quel vino prodotto da viti che si coltivavano nei paraggi del Wienerwald da duemila anni, già molto prima che i legionari romani piantassero le loro acquile nella località detta allora Vindobona. Sigmund non si fermò.
Il sentiero che saliva serpeggiando era protetto da una folta ombra, ma egli ribolliva nel calore della sua angoscia. Parossismi di emozione lo investivano: vergogna, rabbia, senso di sconfitta, confusione, paura, frustrazione, ansia; tutta una serie di stati d’animo nettamente distinti, ognuno dei quali gli lasciava in bocca un’amarezza diversa.
Abbandonato il sentiero, prese attraverso i boschi circondati da argentee betulle e da pini. Pace, quiete: solo qualche trillo d’uccello, a tratti, o il rumore lontano della scure d’un boscaiolo rompevano il silenzio. Il verde fogliame d’una foresta può assorbire tutto il dolore umano senza avvizzirne. Ma nemmeno questi alberi meravigliosi, oggi, riuscivano a riportare la serenità nell’animo di Sigmund. Quel senso di benefica evasione che nel corso degli anni aveva sempre provato rifugiandosi nel verde grembo della natura, lontano dal mondo ostile, restava un’aspirazione vana: egli continuava ad oscillare tra l’angoscia e la rabbia”.

E qui il giovane Freud frustrato ricorda precisamente Hitler, sognatore a occhi aperti dopo aver incontrato il rettore dell’Accademia di Belle Arti: “… Completamente abbattuto abbandonai il bel palazzo di piazza Schiller; per la prima volta, in vita mia, in disaccordo con me stesso… A viste umane, l’adempimento del mio bel sogno d’arte non era più possibile”.

Torniamo a Irving Stone:
“Raggiunse la cima della collina, dove sorgeva il ristorante-giardino del Kaklenberg. Piccoli gruppi di gitanti consumavano il loro spuntino al sacco e bevevano boccali di birra portati da camerieri su larghi vassoi. Benchè stanco dopo quella sgambata di otto miglia, Sigmund proseguì immediatamente il cammino, prendendo per l’alto sentiero che snodandosi lungo il crinale conduceva a Leopoldsberg e al suo diruto castello. Sotto il suo sguardo si stendeva Vienna, chiusa tra il Wienerwald e il Danubio. A sud si ergevano i picchi alpini affacciati verso l’Italia, a est giacevano le immense pianure da cui erano venuti gli invasori asiatici e gli unni, gli avari, i mangiari, i turchi che avevano assediata e talvolta conquistata la città imperiale. Nulla egli vedeva, all’infuori della propria infelicità, poiché era caduto in un vischioso mare di autocommiserazione.
Come avrebbe potuto chiedere a Martha di fidanzarsi con lui, ora che il suo avvenire era così buio e incerto? Come le avrebbe spiegato questo fallimento della sua aspirazione a diventare uno scienziato? Come sarebbe riuscito a mantenere non già la propria famiglia, ma anche semplicemente se stesso nei propri anni? Come avrebbe potuto sopportare quattro anni di tirocinio ospedaliero in chirurgia, nella quale si riconosceva inetto; in dermatologia, che non l’aveva mai interessato; in medicina interna, per la quale non possedeva le necessarie attitudini diagnostiche; in malattie nervose, sulle quali egli sapeva soltanto ciò che gli era stato insegnato dal suo amico dottor Josef Breuer? La psichiatria, che era poi una specie di anatomia del cervello, sotto la guida del professor Meynert non avrebbe certo mancato d’interesse: egli aveva già compiuto alcuni studi di psichiatria clinica con quel professore, che l’aveva in simpatia e poteva istruirlo a fondo in materia di “localizzazione”; ma siccome i suoi eventuali clienti futuri non avrebbero avuto nessuna voglia di scoperchiarsi il cranio per dargli modo di studiare i guasti del loro cervello, a che gli sarebbe servito quell’addestramento?
A metà strada verso il Kahlenberg infilò una stretta carrareccia piena di buche che conduceva a Klosternenburg. Ai piedi dell’altura, con tutti i muscoli indolenziti, voltò le spalle ai Chiostri e seguì la sponda del Donan Strom, soffermandosi ogni tanto per rinfrescarsi la faccia. Gli restavano ancora parecchie ore di cammino; ma era ormai giunto alla convinzione che doveva smetterla di tormentarsi e di abbandonarsi alla disperazione, accantonare il pensiero dell’Università, della Facoltà di medicina, dell’Allgemeine Krankenhaus, del ministero dell’Istruzione… Innumerevoli individui avevano sopportato le loro punizioni anche quando venivano inflitte a colpi di sferza sulla nuda schiena: stringevano i denti e si rifiutavano di urlare. L’indomani si sarebbe aperto un altro giorno della loro vita. Esisteva forse altra alternativa?”.

Ancora Sigmund non lo sapeva: ma queste esperienze di vita gli avrebbero consentito di scrivere l’opera fondamentale della sua vita: “Al di là del principio di piacere”…

“Era pomeriggio inoltrato quando, emotivamente esausto, giunse all’abitazione del dottor Josef Breuer, suo confidente e intimo amico.
Noto a Vienna come “Breuer dal tocco d’oro”, Josef era il medico personale della maggior parte dei medici di tutto l’impero austroungarico. La sua fama poggiava sulla sua abilità diagnostica…
Sigmund, calmo, gli raccontò tutto: come Martha Bernays gli aveva fatto capire che lo amava; la richiesta rivolta a Brucke per ottenere la nomina ad assistente; la risposta e il consiglio del professore.
“Martha Bernays di Amburgo? – domandò Josef. – La figlia di quel Bernman Bernays che era segretario privato del professor von Stein?” (in queste battute formidabili c’è un elogio della Borghesia in senso “anti-Van Gogh” che non si può non apprezzare!, ndr)
“Sì. E’ morto due anni fa”.
“Lo so. All’Università ho studiato storia dell’economia sotto il professor von Stein”.
“Josef, posso dirti che questo è stato il giorno più angoscioso della mia vita. Non vedo nessuna via d’uscita”.

“Infatti non c’è. C’è soltanto una via d’entrata. Mi hai detto che preferisci estirpare le malattie in generale, anziché le sofferenze individuali. Ho sempre avuto l’impressione che in quel desiderio vi sia qualcosa di messianico”.
“Che c’è di male nel messianismo, se serve di sprone per realizzare le proprie aspirazioni?”
“Nulla. Ma dovrebbe essere un risultato, non un punto di partenza. Sai, Sigmund? Già da lungo tempo ho scoperto sotto la superficie della tua timidezza uno straordinario ardimento”.

Orbene, quella operata da Josef Breuer nei confronti del narcisista Sigmund è la “castrazione del padre”: non si nasce imparati; vedere sul punto la lettera del padre di Camillo Benso di Cavour: dopo che egli perse 45.000 franchi in una speculazione quantomeno azzardata a Parigi: “Camillo, non puoi diventare subito Primo Ministro!”.

Non c’era exit strategy possibile per Sigmund Freud, turbato emotivamente dalla “castrazione paterna” del professor Brucke: egli doveva accettare la fatica della routine nell’Allgmemeine Krankenhaus, prima di volare in alto.
Il giovane matematico indiano Srinivasa Yengar Ramanujan, a Cambridge, respinse con sdegno i “diktat” di Lord Godfrey Harold Hardy: e venne bocciato per ben due volte, perdendo la borsa di studio tout court nell’ossessione monomaniaca – cioè il “disturbo di Asperger” – di vedere pubblicati subito i suoi quaderni sulle equazioni – che erano fatte senza le necessarie dimostrazioni “probanti” (sic!), come si dice in linguaggio giuridico.

Lavorando come medico di base nell’Allgmeneine – disse Breuer all’impaziente Sigmund – “A questo modo, invece, sarai indipendente. Il primo còmpito della scienza medica è la cura dei malati”.

Ps – Il riluttante Freud, a differenza del one track mind Ramanujan che si vedeva presuntuosamente emancipato come l’insegnante di se stesso contro l’intero establishment in blocco di Cambridge (sic!) – come emerge molto chiaramente dalla pellicola magistrale “L’uomo che vide l’infinito” –, accettò di frustrare la sua “monomania” imparando bene la routine di medico nella Torre dei Pazzi, senza i privilegi del “Privat Dozent”. Anche se questa idea non gli piaceva per niente. E poi vinse una borsa di studio per l’Università della Salpetriere – dove sarebbe stato illuminato d’immenso dalla personalità carismatica di Jean Martin Charcot, di cui divenne discepolo alla scuola ipnotica di Parigi.
E poi, la sua passione per la psicologia divenne un tiranno (ma non all’inizio!).
You can’t have the cake and eat it.
Ecco perché la “diagnosi precoce” è eticamente, politicamente e psicologicamente irricevibile.
E’ in giuoco la libertà dell’uomo.
E’ in giuoco l’autos nomos.

di Alexander Bush