Tra il Signore e Lucifero non si può stare in mezzo; bisogna decidere da che parte stare “Io sono particolarmente diffidente nei riguardi del concetto di equilibrio.
Sottintende uno stato di cose desiderabile, una meta finale dove riposarsi, perché nulla può esservi migliorato”
George Soros
“Non ci sono istanze al di sopra della ragione”
Sigmund Freud
In un anno e 2 mesi ho letto l’opera magistrale di Irving Stone “Il romanzo di Sigmund Freud. Le passioni della mente” che va aldilà del bello e del brutto, dove – con tutto il cosmopolitismo degli inglesi che si meravigliano che il successo è l’altra faccia del fallimento – lo Stone non aveva paura di danzare tra la bellezza e la profondità nelle 870 pagine del “suo” testo, quando egli non era in grado di realizzare solo pagine belle (mentre Francis Scott Fitzgerald è stato ininterrottamente bello ne The Great Gatsby); in occasione del 70esimo compleanno con un’atmosfera da Titanic sul lago del Po, Vittorio Sgarbi ha dichiarato: “L’opera è senza significato”.
Recentemente, Massimo Recalcati è intervenuto sul tema sostenendo che il testo d’arte è “l’inconscio come taglio in atto che resiste alla significazione”: respingo al mittente questa interpretazione, perché il freudismo è incompatibile con il “mysterium divinis” dell’opera, anche nella sua reinvenzione con la lezione strutturalista.
Bellezza e profondità sono due cose diverse.
Non è l’inconscio il primum movens del comportamento dell’essere umano, e Sigmund Freud non lo capì cedendo alla trappola mortale dei paralogismi: l’illusione narcisistica dell’Illuminismo che ragione e realtà siano categorie distinte e separate, quando non si può trascurare la realtà.
Il lavoro di Freud, che era condizionato dalla “sindrome della visione” poi degenerata nella presunzione dell’ideologia, è diviso in due parti: la scoperta dell’inconscio e la teoria dell’inconscio funzionale alla fondazione della psicanalisi (Irving Stone la chiamava così, Massimo Recalcati che imita Maurizio Crozza la chiama “psicoanalisi”).
E qui Freud sbaglia. Ma non è che sbagliava, e pazienza. I suoi errori furono e restano gravidi di conseguenze. Soprattutto per lo stesso Sigmund, al limite della morte: la presunzione della hybris si rovescia nella tragedia. Il discorso è ambiguo: l’ideologizzazione della “proiezione” offende la libertà dell’autos nomos; confrontiamo Freud e Oscar Wilde.
Il medico dell’Allgemeine Krankenhaus diceva che tutto è riconducibile al mito dell’eziologia come motivazione inconscia dell’inspiegabile, nell’errore di avere accesso alla verità ultima con la “teoria dell’inconscio” – attenzione! – non con la sua scoperta, che è precedente al velleitarismo del “concetto di equilibrio”: io ho ragione; ma non si può avere ragione a questo mondo, poiché si entra irrimediabilmente in contrasto con la realtà che “è sempre più complessa dell’interpretazione che ne diamo” (vedi George Soros), che con la teoria della riflessività ha messo in discussione la teoria dell’inconscio: lo stesso Soros, però, condizionato come Sigmund dalla forma mentis della razionalità ebraica, ha scoperto prima la riflessività dei fenomeni umani e poi ha elevato al “punto di equilibrio” tale scoperta presentando la sua teoria sotto forma di idea universalmente valida: sbagliava Freud, sbaglia Soros che ha “ragione” contro Freud; se si eleva al “punto di equilibrio” la teoria della riflessività, si rifonda la realtà legittimando il crimine: con le speculazioni al ribasso contro la sterlina e la lira e la gestione criminogena delle fondazioni della Opening Society nell’Est Europa. Freud si confessava dichiarando l’autos nomos come verità ultima:
“Fumare è indispensabile se non si ha nulla da baciare.”
“Il momento in cui un uomo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che
oggettivamente non esiste nessuna delle due cose; col porre questa domanda uno sta semplicemente ammettendo di avere una riserva di libido insoddisfatta provocata da qualcos’altro, una specie di fermentazione che ha condotto alla tristezza e alla depressione.” (estratto di una lettera scritta a Marie Bonaparte, che contribuì a salvare i Freud dal sequestro a opera delle Ss)
“I nevrotici si lamentano della loro malattia ma la sfruttano a volontà, e se la si vuole togliere loro la difendono con le unghie e con i denti.”
“Lo scrittore creativo fa la stessa cosa del bambino che gioca; egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio.”
“Un uomo non dovrebbe sforzarsi di eliminare i suoi complessi, ma di entrare in sintonia con loro.” (Piero Ottone ha sostenuto che è vero il contrario nella sua opera “Il tramonto della nostra civiltà” edito da La Mondadori: Gianni Agnelli gli disse “Lei ha scritto qualcosa di importante”; probabilmente, com’era suo charme, si stancò di leggere il libro, ma pensava veramente quello che aveva detto, ndr)
“E’ possibile che Leonardo fu affascinato dal sorriso di Monna Lisa perché destava qualcosa che era rimasta a lungo addormentata nella sua mente, probabilmente un vecchio ricordo.
Questo ricordo era di importanza tale che egli non riuscì più a liberarsene una volta ridestato; egli era continuamente costretto a dargli nuova espressione.”
Ma se Leonardo da Vinci lo avesse saputo, non avrebbe realizzato la Gioconda.
“La religione è un narcotico con cui l’uomo controlla la sua angoscia, ma ottunde la sua mente.”
“Noi ci diciamo che sarebbe molto bello che ci fosse un Dio quale creatore del mondo e un’amorevole provvidenza, un ordinamento morale del mondo e una vita nell’aldilà, ma è evidentissimo che tutte queste cose sono esattamente quelle che non possiamo non desiderare.”
“Il nevrotico si isola dalla realtà perché la trova – nel suo insieme o in una sua parte – insopportabile.”
“Come il cavaliere, se non vuole essere disarcionato dal suo cavallo, è costretto spesso a ubbidirgli e a portarlo dove vuole, così anche l’Io ha l’abitudine di trasformare in azione la volontà dell’Es come se si trattasse della volontà propria.”
“L’ego non è il padrone a casa sua.”
“La creatività è un tentativo di risolvere un conflitto generato da pulsioni istintive biologiche non scaricate, perciò i desideri insoddisfatti sono la forza motrice della fantasia ed alimentano i sogni notturni e quelli a occhi aperti.”
“La ragione per cui la ricchezza non porta la felicità sta nel fatto che il denaro non è un concetto infantile.”
“Il mito del re Edipo, che uccise suo padre e sposò sua madre, rivela, con una piccola modificazione, il desiderio infantile, che più tardi viene rifiutato dalla lotta contro l’incesto.
L’Amleto di Shakespeare è ugualmente incentrato nel complesso dell’incesto, ma sotto un profilo psicologico migliore.”
“… gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono scomparsi ma continuano ad esistere, sebbene allo stato represso, nell’inconscio degli individui, pronti a riemergere alla prima occasione…” (dicembre del 1914 in una lettera all’olandese Van Eeden).
La prefazione di Oscar Wilde a “Il ritratto di Dorian Gray” è superiore per valore estetico agli aforismi di Sigmund Freud, che sono causalmente collegati alla teoria dell’inconscio come verità universalmente valida (ma alla fine della sua vita, il medico di Vienna abbandonò il “concetto di equilibrio”: pochi mesi prima di morire in esilio a Londra):
“L’artista è il creatore di cose belle. Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte.
“Il critico è colui che può tradurre in diversa forma o in nuova sostanza la sua impressione delle cose belle.
“Tanto le più elevate quanto le più infime forme di critica sono una sorta di autobiografia.
“Coloro che scorgono brutti significati nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti.
“Questo è un errore. Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono le persone colte.
Per loro c’è speranza.
Essi sono gli eletti: per loro le cose belle significano solo bellezza.
Non esistono libri morali o immorali.
I libri sono scritti bene o scritti male.
Questo è tutto.
L’avversione del diciannovesimo secolo per il realismo è la rabbia di Calibano che vede il proprio volto riflesso nello specchio.
L’avversione del diciannovesimo secolo per il romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede il proprio volto riflesso nello specchio.
La vita morale dell’uomo è parte della materia dell’artista, ma la moralità dell’arte consiste nell’uso perfetto di un mezzo imperfetto.
L’artista non desidera dimostrare nulla.
Persino le cose vere possono essere dimostrate.
Nessun artista ha intenti morali.
In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico.
Nessun artista è mai morboso.
L’artista può esprimere qualsiasi cosa.
Il pensiero e il linguaggio sono per un artista strumenti di un’arte.
Il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un’arte.
Dal punto di vista formale il modello di tutte le arti è l’arte del musicista.
Dal punto di vista del sentimento il modello è l’arte dell’attore.
Ogni arte è insieme superficie e simbolo.
Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio.
L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita.
La diversità di opinioni intorno a un’opera d’arte dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale.
Possiamo perdonare a un uomo l’aver fatto una cosa utile se non l’ammira.
L’unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente.
Tutta l’arte è completamente inutile.”
Oscar Wilde
Oscar Wilde batte Sigmund Freud.
Bellezza e profondità non sono la stessa cosa, e la prima è superiore alla seconda.
Si può sostenere che il falso Sé di Oscar Wilde ha generato “The portrait of Dorian Gray”?
Sì, ma a costo di volgarizzare il bello. Ed è una colpa imperdonabile.
1. SIGMUND FREUD SCOPRE L’INCONSCIO: MA LA REALTA’ ESISTE “Penso, dunque sono” diceva Cartesio. L’idea illuministica che la ragione sia in grado di spiegare e prevedere la realtà resta profondamente radicata nel nostro modo di pensare…
Anche se è imprevedibile, la realtà esiste.
Potrà anche essere difficile accettarlo, ma è inutile o addirittura pericoloso negarlo…”.
George Soros
L’analisi freudiana de Il ritratto di Dorian Gray da parte di Riccardo Dalle Luche e Liliana Dell’Osso ne “L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi di un cold case” è condizionata a mio modesto avviso da un’impostazione culturalmente sbagliata: l’inconscio di Oscar Wilde come primum movens dell’opera stessa; se oggi Oscar Wilde fosse in analisi da uno psicoterapeuta come Dalle Luche, smetterebbe di scrivere (sic!). A pag. 137 del capitolo “Essere un altro: la maschera, il doppio, l’attore”, gli autori scrivono: “… Un altro testo importante sul tema del “doppio”, anche per quanto riguarda la psicopatologia di Marilyn, è Il ritratto di Dorian Gray, emblema novecentesco del narcisismo patologico, con molti aspetti profetici relativamente all’attuale mondo dell’immagine e dell’apparire, in cui l’icon-show ha sostituito l’inconscio. Si tratta, com’è noto, dell’unico romanzo di Oscar Wilde che, al di là delle celebri battute e paradossi, nasconde una tematica tragica, con la quale Wilde farà i conti nelle opere scritte in carcere, come il poema La ballata del carcere di Reading o il De Profundis… Nella Londra aristocratica vittoriana, è un ritratto nascosto in soffitta ad accumulare i segni del tempo e delle malefatte di Dorian, un bellissimo giovane gaudente, narcisista e amorale, che riesce così, per un tempo innaturalmente lungo, a mantenere intatta la splendente bellezza, la giovinezza e un’immagine sociale irreprensibile…”.
Questa interpretazione psicoanalitica dell’opera d’arte è stata messa in discussione da Massimo Recalcati nella “Prefazione alla nuova edizione” del suo capolavoro “Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh”: “… Dopo la lezione strutturalista il testo d’arte non può più essere considerato come l’effetto della vita e della malattia del suo autore secondo un nesso deterministico che annulla l’autonomia dell’opera, ma il luogo dove si manifesta l’inconscio come taglio in atto, come ciò che resiste alla significazione, come sbarra che separa il significante dal significato producendo un effetto di enigma, realizzando una presenza irriducibile al senso già visto e già conosciuto. Questa presenza non è senza legami con la vita dell’artista – scaturisce indubbiamente da quella vita particolare – ma è anche ciò che oltrepassa quella vita. In questo senso l’opera realizza sempre una sproporzione, uno sfasamento, una eccedenza tra l’io dell’autore e la sua stessa esistenza che, come tale, sfugge all’io, oltrepassa le sue intenzioni, si rivela come straniera a chi l’ha generata. Questa eccedenza dell’opera rispetto alla vita significa che la biografia dell’artista non spiega l’opera, ma trova nell’opera la sua scrittura ultima. Il che inverte il rapporto ingenuo stabilito dalla patografia psicoanalitica tra vita e opera: l’opera non è un effetto deterministico della vita, ma è ciò che riscrive la vita retroattivamente.
Questa rivoluzione copernicana negli studi psicoanalitici applicati all’arte, più ampiamente teorizzata nel mio Il miracolo della forma: per un’estetica psicoanalitica…”.
Parole spiazzanti per la loro bellezza, quelle di Massimo Recalcati. E’ il “miracolo della forma”, appunto, o il “miracolo del quadro”, se preferite. Qui siamo nella Mano Invisibile di Adam Smith.
Ma anche Recalcati commette la presunzione di portare l’autos nomos al “punto di equilibrio”: il mito dell’etiologia non è compatibile con l’opera; il mistero dell’opera è inviolabile tout court.
L’autonomia confina con l’eteronomia.
Sigmund Freud, un medico straordinario caratterizzato dalla singolare “doppiezza della forma mentis” – artista e scienziato contemporaneamente – scoprì per puro caso l’inconscio, come emerge molto bene dai racconti elegantissimi del grande scrittore Irving Stone: era casualmente in linea, tra l’esperienza formativa all’Allgemeine Krankenhaus e l’illuminazione di Charcot alla Salpètriere, con i venti dello Zeitsteil: il tramonto della civiltà occidentale, del quale la manifestazione più evidente era – già al tempo di Sigmund – l’aumento eccezionale del numero di persone ricoverate negli ospedali di tutta Europa per malattie nervose di cui non si capiva l’origine. Un sintomo dello spegnimento dell’èlan vital della comunità europea. Dalle persone più semplici agli esponenti della nobiltà, in troppi cominciavano a stare male. “La depressione è la malattia più democratica”: Indro Montanelli dixit a Giovanni Battista Cassano. Raccontava Irving Stone: ad un paziente affetto da isterismo sottoposto alle terapie borderline dell’ipnosi che Freud aveva appreso – come aspirante “Privat Dozent” – da Mounsieur Jean Martin Charcot a Parigi,
“… restava soltanto un vago residuo di senso di pesantezza alla gamba, che parecchie altre sedute ipnotiche non valsero ad eliminare.
“Questo è dovuto a qualche lieve disturbo fisico?”, domandò Sigmund a Josef Breuer, la domenica successiva, mentre facevano un rapido giro per il Ring, sotto un cielo cinereo. “Oppure io non ho saputo sradicare completamente l’idea ossessiva?”. “Non contestare tu stesso la guarigione che hai ottenuta!”
“Quante cose sappiamo sulla struttura fisica del cervello, e quanto poco sappiamo sull’origine delle idee che si agitano attraverso quella massa di materia grigia… Sì, Josef, lo so: le idee rientrano nel campo della psiche, l’anatomia cerebrale in quello somatico. Ma a volte provo un senso di frustrazione non riuscendo a capire perché un individuo pensa ciò che pensa.”. Prima della fine dell’anno ebbe ancora due occasioni di sperimentare la suggestione ipnotica. Il suo amico dottor Obersteiner gli mandò una giovane bonne di nome Tessa che da sette anni era a servizio presso un’ottima famiglia viennese. Da parecchie settimane ella andava soggetta a crisi nervose ogni sera tra le otto e le nove, al momento di ritirarsi nella sua stanza. Seguivano convulsioni, dopo le quali la ragazza piombava in un sonno simile ad uno stato di trance. Al risveglio scappava in strada, semisvestita. In un mese aveva perso trenta libbre di peso. Da vari giorni non mangiava più nulla. Dopo aver provato inutilmente vari medici, la padrona era ormai decisa a farla ricoverare in una clinica per malattie mentali. Sigmund la trovò dotata di un’intelligenza sveglia, vogliosa di parlare e totalmente incapace di rendersi conto di ciò che le era successo. Diagnosticò un caso d’isterismo. Sfiorandole le palpebre con le punte delle dita, le parlò con tono rassicurante e, quando fu immersa nel sonno, le mormorò che era una ragazza sana e forte, che sarebbe guarita, che non doveva più aver paura quando si ritirava nella sua stanza, che l’appetito le sarebbe tornato e che avrebbe dormito serenamente tutta la notte. Dopo dieci minuti la svegliò. “Herr Doktor!”, esclamò Tessa, sgranando gli occhi dalla meraviglia. “Non posso crederci! Ho fame. Andando a casa mi comprerò un panino da mangiare per strada”.
Quattro sedute la riportarono alla normalità. Una settimana dopo, la padrona venne a pagare la parcella. “Come si spiega, dottore, che i migliori professori di Vienna non siano riusciti a far nulla per quella ragazza, mentre in pochi giorni lei l’ha fatta diventare la Tessa d’un tempo, sana e simpatica come prima?”. Sigmund si carezzò la barba per guadagnar tempo. Conveniva dirle che si era servito dell’ipnosi, con il rischio di doversi poi giustificare, in una città che per questo metodo nutriva soltanto disprezzo?
“A volte succede”, si limitò a rispondere. “La ragazza mi è stata condotta proprio nel momento giusto in cui la guarigione era possibile”.
Ma la signora era già uscita, ed egli continuava ancora a rivolgersi una serie di domande. Perché, dopo sette anni in Tessa si era prodotta quell’acuta avversione ad entrare la sera nella sua stanza? Quale era la causa delle convulsioni? Che cosa la spingeva, in strada? E perché non si sentiva più di mangiare?
Gli riaffiorarono nel cervello le risposte di Breuer, di Charcot, di Chrobak: secrets d’alcove, questione di genitali, penis normalis. Ripetere la dose. Ma quei giudizi si riferivano a donne sposate, mentre Tessa era nubile e certamente ancora vergine… Ed ecco presentarglisi il caso che doveva fornirgli la spiegazione di enigmi d’importanza fondamentale, spalancare le massicce porte del futuro e mutare il corso della sua vita”.
E’ la saldatura perfetta tra lo Zeitsteil e l’individuo. Trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Come succede ai giocatori di poker.
“Un Dieustmann gli portò un biglietto col quale Josef Breuer lo pregava di recarsi da lui appena congedato l’ultimo cliente. Pochi minuti dopo, una cameriera gli recapitava un secondo biglietto, d’una certa Frau Emmy von Neustadt: il dottor Breuer le aveva parlato di lui: sarebbe potuto venire da lei, per favore, quel pomeriggio stesso?
Era il 1 maggio, una giornata gradevolmente calda, con le venditrici di lavanda che cantilenavano il loro verso per le vie e i violinisti ambulanti che suonavano i loro valzer un po’ stonati alle cantonate. Sigmund trovò Breuer nel suo laboratorio, in maniche di camicia, intento a fare esperimenti sui piccioni. Si misero a discorrere dinanzi alla finestra spalancata ai soffi della primavera e affacciata sul giardino.
“Sig, vorrei che ti occupassi di un caso difficile: Frau Emmy von Neustadt. L’ho curata per sei settimane, ossia da quando è arrivata da Abbazia con una gamba parzialmente paralizzata. Ho provato di tutto: massaggi, elettroterapia, calmanti; ma è rimasta completamente insoddisfatta di me. Ieri, credendo che non me ne accorgessi, ha addirittura preso a farsi beffe di me. Ho fatto il tuo nome, COME PER CASO (sottolineare le parole di Irving Stone, ndr). E probabilmente oggi ti avrà mandato a chiamare”.
“Sì. E’ davvero urgente andarci?”
Josef fece portare due bibite fresche. Si sedettero al tavolo di lavoro su cui Breuer teneva il microscopio, le lastrine, il diario degli esperimenti. “Sicuro, Sig, è urgente. Ma prima, lascia che ti dica ciò che so di lei”.
Frau Emmy proveniva dalla nobiltà terriera della Germania Settentrionale: possedeva una casa in città e una proprietà in campagna, nelle vicinanze del Baltico. Era una donna colta, di raffinata educazione. A ventitrè anni aveva sposato un vedovo sulla cinquantina, che dalla prima moglie aveva avuto parecchi figli: un uomo dotato di alta intelligenza e di cospicuo talento, che si era costruito un solido impero industriale. Un’unione che presentava tutti i caratteri d’un matrimonio d’amore. Nei tre anni di felice vita coniugale Emmy aveva dato a Von Neustadt due figlie: il suo salotto era frequentato da scrittori, artisti, uomini di teatro, scienziati e professori universitari. Poche settimane dopo la nascita della seconda figlia, Von Neustadt era morto d’un colpo apoplettico ed ella si era ammalata, come pure la piccina. Ne avevano avuto per lungo tempo. Più tardi, Frau Emmy aveva avuto una parte importante nella direzione del complesso industriale del marito, pur continuando a tenere aperto il suo salotto letterario, viaggiando, coltivando molti fervidi interessi. Ma nei quattordici anni trascorsi dalla morte del marito aveva sofferto di tutta una serie di strani malesseri.
Giunto all’elegante pensione dove la signora viveva con le due figlie, con una governante e una cameriera, Sigmund s’infilò nell’ascensore e salì all’ultimo piano. Introdotto nella stanza di soggiorno, vi trovò una donna dall’aspetto ancora giovanile, distesa su un divano con la testa sul cuscino di cuoio e una coperta sui piedi. La faccia era piena di carattere: lineamenti fini e occhi verde mare che, per quanto annebbiati dalla sofferenza, rivelavano una straordinaria intelligenza. I serici capelli biondi erano pettinati verso il sommo della testa, la figura avvolta in una veste a fiorami. Egli si soffermò un istante appena varcata la soglia, per studiare quella fisionomia; poi le si avvicinò. Il viso aveva un’espressione tesa; i tendini del collo spiccavano con forte risalto; un muscolo vibrava sotto la pelle della guancia sinistra, alzandosi e riabbassandosi con un ritmo uniforme; le dita si serravano, si schiudevano, tornavano a serrarsi nervosamente.
“Frau von Neustadt, io sono il dottor Sigmund Freud. Come si sente?”
“Non troppo bene, Herr Doktor”, rispose la signora con una voce sommessa, dal timbro basso e dalle inflessioni perfette.
“Ho nella gamba sinistra sensazioni di freddo e fitte di dolore che sembra partano dalla schiena…”.
Bruscamente s’interruppe, con un’espressione di orrore. Protese verso di lui la mano destra con le dita aperte e gridò con voce strozzata: “Stia fermo! Non parli! Non mi tocchi!”.
La mano ricadde, le dita si rilassarono, ed ella continuò con la voce sommessa di prima: “Ho anche notevoli disturbi gastrici. Sono ormai due giorni che non mi sento di mangiare né di bere nulla. Basta un boccone, basta una goccia di liquido per farmi star male…”.
Tacque, chiuse gli occhi; improvvisamente dalla bocca le uscì una specie di ticchettio prodotto dal battere della lingua contro i denti, poi uno schiocco delle labbra, seguito da un sibilo. La contrazione dolorosa le svanì dal viso. Ella si appoggiò più comodamente sul cuscino.
“I miei genitori hanno avuto quattordici figli, dei quali io sono la penultima. Purtroppo, soltanto più quattro siamo ancora vivi. Sono stata allevata bene, con ogni riguardo, nonostante la rigorosa disciplina imposta dalla mamma, che ci amava ma era severa…”.
Tornò a puntare il braccio in avanti, gridando: “Stia fermo! Non parli! Non mi tocchi!”. E proseguì, col tono sommesso di poc’anzi: “In séguito alla morte improvvisa di mio marito, che adoravo, e alle difficoltà incontrate nel tirar su le mie due figliole, che hanno adesso quattordici e sedici anni, e sempre hanno sofferto di disturbi nervosi, mi sono ammalata…”. Ed ecco di nuovo il ticchettio, lo schiocco, il sibilo. “In tutti questi anni, Frau von Neustadt, ha mai trovato medici e cure che le abbiano giovato?”.
“Raramente. Quattro anni fa ho tratto un certo miglioramento da una combinazione di massaggi e bagni elettrici. Ora da parecchi mesi soffro di depressione e d’insonnia.
Mi trovo a Vienna da sei settimane, in cerca di un’assistenza medica che veramente mi aiuti, ma finora non l’ho trovata… Stia fermo! Non parli! Non mi tocchi… Ieri il dottor Breuer ha detto qualcosa di lei, che m’ha indotta a credere nella sua capacità di migliorare le mie condizioni”.
“Spero di riuscirvi, Frau von Neustadt. Le consiglio comunque di lasciare qui le sue due figlie, con la governante e la cameriera, e di entrare in un’ottima casa di cura che le indicherò. Là potremo fare uno studio completo dei suoi sintomi e io mi troverò nelle condizioni più favorevoli per cercare di guarirla”.
I verdi occhi della signora lo scrutarono per un istante. “Grazie, Herr Doktor. Se vuole dirmi il nome e l’indirizzo di quella clinica privata, vi andrò fin da domattina”.
Uscendo dalla pensione egli si trovò avvolto dalla luce rosata del crepuscolo, che sfumava i contorni degli edifici. Con una specie di opaca fissità negli occhi, camminava con un’andatura rotta e disuguale che gli era insolita, sforzandosi di dare un’interpretazione a quanto aveva visto e ascoltato nel corso di quel colloquio. Evidentemente Frau Emmy era affetta da una seria forma d’isterismo: a tratti intelligente e ragionevole, di colpo soccombeva a orrende allucinazioni, senza aver l’aria di rendersene conto. I suoi tic mentali davano l’impressione di scaturire da una parte del cervello che nulla aveva in comune con la parte avvezza a ragionare e ad esprimersi in modo logico.
A un certo punto Sigmund si trovò accanto alla cattedrale di Santo Stefano, dove file di carrozze erano in attesa di clienti e i fiaccherai discorrevano tra loro. I pensieri gli turbinavano nella testa con un ritmo frenetico, un greve residuo d’emozioni gli opprimeva il petto. Sentiva di trovarsi come affacciato sul ciglio d’un abisso: il dualismo della natura umana. Dopo quella rappresentazione dell’Edipo re, Breuer aveva negato che Giocasta fosse consapevole di essere sposata col figlio. Ed egli non aveva saputo compiere il successivo passo logico, al quale lo spingeva ora tutta la forza della sua intelligenza: Giocasta conosceva la vera identità di Edipo nel suo inconscio. Tiresia, il profeta cieco, lo affermava esplicitamente: “Con le persone che più ti son care tu inconsciamente vivi in nefanda turpitudine, né vedi in quale abisso d’obbrobrio ti trovi”
L’ipnotismo era appunto la chiave che consentiva l’accesso alla sfera dell’inconscio!
E i pazienti che egli aveva aiutato mediante la suggestione ipnotica – la madre che non poteva allattare il suo bambino, l’uomo d’affari che non poteva camminare, la domestica che non poteva restare nella sua stanza di notte – si erano ammalati a causa di un’idea annidata nella zona inconscia della loro mente.
Alzò lo sguardo verso la torre gotica della cattedrale, senza veder nulla, col respiro agitato, in preda ad un suo sgomento, e ad un’esaltazione quali raramente aveva provato in vita sua. Era come se si trovasse in cima alla più alta vetta dei monti di Semmering, avvolto da una nebbia impenetrabile, e a un tratto quella foschia si fosse dissolta, rivelandogli la pianura sottostante: nel suo caso, i contorni della mente umana. Una realtà che poeti, romanzieri e drammaturghi avevano sempre sentita. La psicologia aveva parlato dell’anima, di facoltà morali, ed era stata disprezzata.
Ma oggi egli aveva visto l’inconscio all’opera.
E già prima, come tutti, l’aveva visto in funzione innumerevoli volte, senza comprendere il significato di ciò che si svolgeva dinanzi ai suoi occhi.
Possibile? Possibile che vi fossero nella creatura umana due menti che agivano indipendentemente l’una dall’altra? Un concetto sconvolgente.
Nella calda aria della sera egli ebbe un brivido, simile a quello che doveva aver provato Vasco de Balboa quando, ritto su un promontorio, aveva avuto la prima visione dell’Oceano Pacifico: un oceano ignoto, mai menzionato da nessuno, assente da tutte le carte geografiche, d’una vastità spaventosa. Quali pericoli si nascondevano nelle sue inscandagliabili profondità? Quali mostri potevano emergerne? Quali forze si potevano scatenare nelle sue burrasche?
Le intuizioni che ora gli balenavano nella mente spingevano i suoi pensieri in una selvaggia ridda di pensiero, di confusione, di incredulità verso ciò che gli si presentava con irrefutabile evidenza. Questo era un territorio in cui nessuno si era ancora avventurato. Nessuno ne aveva avuto il coraggio? Nel corso degli anni, egli aveva letto molte cose sul conflitto tra il Signore e Lucifero, specialmente nel Faust di Goethe; e non l’aveva mai inteso se non come un concetto letterario o religioso, di natura simbolica. Ora, per la prima volta, lo comprendeva. Dio era la mente consapevole, logica, responsabile, la grande forza che aveva tratto l’uomo dal mare, dalla giungla, dalla sterposa boscaglia, trasformandolo in un essere ragionevole e dotato di facoltà creativa. Il diavolo era l’inconscio: il Maligno troneggiante in una bassa regione popolata di mostri e di rettili, dimora di tutto ciò che è brutto, malvagio, abbominevole, demoniaco, malevolo, pernicioso, virulento, ignobile e maledetto, rifiuti ed escrementi dell’universo, con i suoi servili mignons sempre pronti a cogliere ogni minima occasione per gualcire, corrompere, contaminare, paralizzare, distruggere. In un luogo così dannato non potevano esservi né Dio, né scienza, né disciplina, né ragione, né civiltà: non il più breve tratto di spazio dove un uomo potesse posare il piede o la mente senza sprofondare di colpo nel viscido e pestilenziale pantano. Una volta così paurosamente insozzato, un individuo poteva ancora tornare alla ragione e alla società? Sigmund Freud ammirava gli uomini coraggiosi: Alessandro il Grande, Galileo, Colombo, Lutero, Semmelweis, Darwin. Aveva sempre sperato di essere egli stesso un uomo intrepido, saldo dinanzi a qualsiasi pericolo. Ma chi non avrebbe tremato davanti a questo luogo d’orrori, peggiore di tutto ciò che Torquemada aveva escogitato per infrangere membra e volontà?
Anche Josef Breuer vi si era imbattuto. Ma il prezzo da pagare gli era sembrato troppo alto? Aveva temuto di contaminarsi? Era inorridito al pensiero di scendere in quel pozzo, anche se in fondo potevano nascondersi diamanti, perle e smeraldi della più pura saggezza, della più limpida bellezza? E aveva di proposito passato questa avventura al suo giovane amico?
Visioni dell’Inferno dantesco, nelle illustrazioni di Dorè, affiorarono nella memoria di Sigmund Freud. E ricordò l’apertura del Canto I: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita. Ah quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte, che nel pensier rinnova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del bene ch’io vi trovai, dirò dell’altre cose ch’io v’ho scorte…”
Si fa presto a dire “Nullum magnum ingenium sine mistura dementiae fuit”: Platone, Il Fedro.
“I beni più grandi ci vengono attraverso una mania, data per concessione divina”: Sigmund Freud era nell’ipomania, che dunque non è la mania.
Sbagliò il professor Giovanni Battista Cassano a dire a Ornella Vanoni, mentre le leggeva la Divina Commedia che Dante era bipolare; sia Freud che Dante Alighieri erano ipomaniacali.
Se Dante fosse stato bipolare, non sarebbe riuscito a scrivere la Divina Commedia.
Ma – al netto della bellezza delle parole di Irving Stone – il weltanschauungeriano Sigmund cedeva alla trappola mortale dei paralogismi: è più vero che se fosse vero!
I diamanti, le perle e smeraldi della più pura saggezza, della più limpida bellezza di cui parlava Irving Stone sono in realtà gli arcani della Mano Invisibile, la quale opera nella regione dell’inconscio che dunque non è il più viscido e pestilenziale pantano;
Gabrielle Chanel aveva costruito inconsapevolmente la maschera di Coco, ma con la costruzione inconsapevole della maschera del personaggio – completamente guidata dai suoi processi inconsci, al di fuori del nesso di causalità – ella consacrò se stessa a icona della moda del suo tempo – nella liaison dangereuse tra l’inconscio e l’azione.
Orbene, Sigmund era casualmente in linea con lo Spirito dei Tempi (come Pierre Janet prima di lui), trovandosi a metà strada tra il Signore e Lucifero. Perché il Tramonto dell’Occidente spenglerianamente parlando, gli consentì di irritare, offendere, rivelare il luogo nascosto della Mano Invisibile, cioè l’inconscio: una scoperta che si situa precisamente nella decadenza della nostra civiltà.
Ma c’è un’istanza superiore alla ragione. Ed è l’egoismo. Anche se la Rivoluzione Francese non lo contemplava.
Può l’egoismo essere psicoanalizzato?
No, perché è un punto cieco al pensiero.
Ma è la forza più potente del mondo.
Perché – come ha detto qualcuno – la maggior parte di noi vive nelle fogne, ma c’è chi lo fa guardando le stelle.
2. FREUD SCOPRE IL NASCONDIGLIO DI LUCIFERO E IL DIAVOLO NON STA A GUARDARE: GLI SEQUESTRA L’ADORATA FIGLIA ANNA, TRATTENUTA DALLE SS ALL’HOTEL METROPOL
“Il diavolo non ha un giusto posto nel cosmo trinitario.
Come avversario di Cristo dovrebbe assumere una posizione antitetica equivalente ed essere parimenti un figlio di Dio. Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le
quali il diavolo come Satana era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’altra conseguenza logica sarebbe l’abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una quaternità.
Certo allora non è più dubbio che di vita comune non respirano solo il Padre e il Figlio luminoso, ma anche il Padre e la creatura tenebrosa”.
Carl Gustav Jung
“Non è affatto vero che l’uomo è orientato, naturalmente, necessariamente, alla ricchezza, al bene, alla verità”
Sigmund Freud, “Il problema economico del masochismo” 1924
“Se il poeta olandese Multatuli sostituisce la Moira (Destino) dei greci con la coppia di dei Logos e Ananche (Ragione e Necessità), non c’è molto da obiettare; ma tutti coloro che attribuiscono il governo del mondo alla Provvidenza, a Dio, o a Dio e alla Natura, destano il sospetto di considerare ancora sempre queste potenze ultime e remote come coppia di genitori (in senso mitologico) e di sentirsi ad essi legati da vincoli libidici.
In L’Io e l’Es ho tentato di derivare dalla concezione parentale del destino anche la realistica paura umana della morte.
Sembra difficilissimo liberarsene”
Sigmund Freud, “Il problema economico del masochismo”
Capitolo 13 dell’opera di Irving Stone “Il romanzo di Sigmund Freud. Le passioni della mente”:
“13.
Nel marzo del 1938, si sentiva ancora sicuro a Vienna.
Il cancelliere Schuschnigg, forte uomo di governo e fiero patriota, aveva saputo resistere tanto le minacce quanto i blandimenti di Hitler, e indetto un plebiscito per decidere se la repubblica austriaca dovesse o no unirsi al Terzo Reich.
Sigmund non ignorava che una buona parte della gioventù austriaca era stata presa dall’infatuazione delle uniformi, delle parate, della retorica nazista; ma la sua opinione, condivisa dalla borghesia di Vienna, era che gli austriaci avrebbero respinto l’idea dell’Anschluss e optato per il mantenimento dell’indipendenza.
Al plebiscito non fu mai permesso di aver luogo.
L’11 marzo 1938 le truppe germaniche invasero l’Austria e ne presero possesso.
Apparecchi tedeschi s’impadronirono degli aeroporti. Vienna brulicava di carri armati. Nazisti austriaci, usciti da una lunga clandestinità, sciamavano per le vie in camicia bruna, con la svastica sul braccio.
La direzione della Società Psicanalitica si sciolse. Fu convenuto che ognuno pensasse a mettersi in salvo. Sigmund veniva incitato da parecchi anni a lasciare Vienna e a rifugiarsi presso vecchi amici in Francia, in Olanda, in Svezia, in Inghilterra o negli Stati Uniti; ma si era sempre rifiutato.
Scriveva ad un amico di ritenere inconcepibile che i nazisti violassero le norme del trattato di Versailles sui diritti delle minoranze. E gli ebrei non erano forse una minoranza, anche se non del tipo di quelle specificate dal trattato?
La domenica successiva dovette ricredersi. Si sentì suonare insistentemente il campanello. Era una pattuglia di militi delle S.A., le squadre d’assalto. Irruppero nell’appartamento, lasciando un loro compagno a far la guardia nell’ingresso perché nessuno potesse scappare. Vedendo costui
alzare e lasciar cadere nervosamente il calcio del fucile sul pavimento, Martha gli disse con fermezza:
“Abbia la gentilezza di mettere quell’arma nel portaombrelli!”.
Il nazista fu così sorpreso che obbedì senza fiatare.
Gli altri erano intanto entrati nella sala da pranzo. Martha li seguì, imperturbabile.
“Signori, vogliono accomodarsi?”.
Essi erano chiaramente imbarazzati, ma lo dimostrarono soltanto con qualche piccolo movimento.
“Per quale scopo”, domandò Martha, “sono venuti a casa nostra?”.
Dopo un istante, uno di essi mormorò: “Abbiamo ordine di confiscare tutti i capitali stranieri”.
Ella andò in cucina, prese il denaro che doveva servirle per le spese della settimana, tornò nella sala e lo mise al centro della tavola.
“Vogliono servirsi, signori?”, disse con quell’accento alto-tedesco con cui si rivolgeva da cinquant’anni agli invitati di suo marito.
I militi si accigliarono: la somma era troppo meschina, per poterla dividere decentemente tra loro. Anna, intuendo la loro collera, li invitò a passare con lei in un’altra stanza e aprì uno scrigno. Essi lo rovistarono in fretta e furia, facendovi man bassa e tirandone fuori seimila scellini. Sigmund, sentendoli contare il denaro, uscì dal suo studio, fragile vegliardo che un colpo di vento avrebbe potuto portar via. I giovani nazisti impallidirono sotto il fuoco del suo sguardo e si affrettarono ad eclissarsi.
“Che cosa volevano?”, egli domandò a Martha.
“Denaro”.
“Quanto hanno preso?”.
“Seimila scellini”.
“Io non ho mai guadagnato tanto con una sola visita”.
Arrivò Martin, accompagnato da Ernest Jones. I Freud non sapevano che questi si trovasse a Vienna. Martin dava l’impressione d’essere stato strizzato come un panno.
Stava lavorando intorno alla contabilità della Casa editrice quando una banda armata di giovani austriaci che si definivano nazisti aveva occupato i suoi uffici, lo aveva arrestato, si era impadronita del denaro della cassa e aveva minacciato di bruciare tutti i libri che aveva in magazzino. In quel momento era capitato Ernest Jones, il quale era stato chiamato telefonicamente da Vienna da Dorothy Burlingham, e sollecitato da Marie Bonaparte, da Parigi, affinchè accorresse da Londra a mettere in salvo Freud e la sua famiglia prima che fosse troppo tardi. Anche Jones era stato dichiarato in arresto, finchè era giunto un ufficiale nazista e aveva mandato via i giovani bravacci.
Non si fecero ulteriori commenti sull’invasione dell’appartamento. Dopo essersi rifocillato, Jones espresse sottovoce a Sigmund il desiderio di parlargli a quattr’occhi. Passarono nello studio, dove tante volte avevano tranquillamente conversato nel corso di trent’anni.
“Professor Freud, in questa mia pazza corsa da Londra a Praga, e poi sul piccolo monoplano che m’ha portato da Praga a Vienna, ci sono stati momenti in cui ho temuto di non arrivare più in tempo per parlarle. Dopo ciò che è accaduto oggi, lei non può non essere convinto che deve lasciare Vienna al più presto, con la sua famiglia. I marciapiedi sono pieni di migliaia di viennesi che urlano Heil Hitler”.
“Li sento”.
“E allora si rende conto che deve andar via”.
“No, è il mio posto qui”.
“Ma, caro professore, lei non è solo nel mondo!”, proruppe angosciosamente Jones.
“La sua vita è cara a molta gente”.
“Solo! Ah, lo fossi! Sono troppo debole per viaggiare. Non ce la farei nemmeno a salire in una carrozza ferroviaria”.
“Non occorrerà. La porteremo”.
“Ma nessun paese mi vorrà accogliere, e certamente non mi permetterà di lavorare”.
“Marie Bonaparte può procurarle un visto per la Francia, dove però non potrebbe esercitare la professione.
L’unico posto conveniente è l’Inghilterra, dove è desiderato da anni.
Ho piena fiducia che il governo le farà buona accoglienza e le permetterà di lavorare”.
“Non posso lasciare il mio paese. Sarei come un disertore”.
“Professore, ha mai sentito la storia di quell’ufficiale del Titanic che fu scaraventato in mare dall’esplosione d’una caldaia? Gli domandarono: “In quale momento avete lasciato la nave?”. E lui, fieramente: “Non sono stato io a lasciare la nave, signore; è stata lei a lasciare me”.
Arrivò da Parigi Marie Bonaparte, non meno decisa di Jones a portare la famiglia Freud fuori dall’Austria.
Intanto Jones tornava a Londra per ottenere i permessi necessari.
Una settimana dopo, ecco presentarsi un gruppo di S.S, uomini più anziani e più risoluti. Frugarono in tutti gli angoli dell’appartamento, dichiarando che cercavano “libri sovversivi”. Sigmund e Martha sedevano silenziosi e immobili, a fianco a fianco sul divano di velluto, mentre i nazisti continuavano la loro sistematica perquisizione. Non trovarono nulla da portar via… eccettuata Anna.
“Che significa questo?”, gridò Sigmund.
“Perché portate via mia figlia? E dove?”.
“All’albergo Metropol. Dobbiamo farle qualche domanda”.
“L’albergo Metropol”, bisbigliò Martha, “è il quartier generale della Gestapo!”.
“Mia figlia non sa niente che possa interessarvi!”, protestò Sigmund.
“Se vi occorrono informazioni, io sono il solo che possa darvele. Sono disposto a venire con voi”.
L’ufficiale nazista eseguì un rigido inchino.
“Abbiamo ordine di arrestare sua figlia”.
Anna cercò di rincuorarli con uno sguardo pieno di calma, mentre usciva tra due S.S.
Martha era pallida, ma non piangeva, sebbene anche a lei fosse noto che ebrei arrestati e condotti al quartier generale della Gestapo avevano subito maltrattamenti fisici e che molti di loro erano stati avviati, senza nome, a campi di lavoro. Tale avrebbe potuto essere la sorte di Anna: subire torture e poi essere mandata quella notte stessa in un campo di concentramento dal quale non sarebbe mai tornata.
“E’ mai possibile che io sia stato l’assassino della mia figliola?”, domandava Sigmund, tirando furiose boccate di fumo dal suo sigaro e cercando di nascondere alla moglie la propria agitazione. “Sono stato uno stupido. Tutti quelli che avevano la possibilità sono fuggiti con le loro famiglie. E io no! Non volevo abbandonare il mio posto, io! Ma perché non ho pensato ad Anna e a Martin?
Noi siamo tutti vecchi, tu, Minna e io. Anche le mie sorelle sono vecchie.
Quel che può accadere a noi, non ha importanza. Ma Anna e Martin hanno ancora tanta vita davanti! Perché non li ho obbligati a raggiungere Oliver e Ernest, dove sarebbero stati al sicuro? Dio mio, che cosa ho fatto alla mia figliola? Che cosa le faranno alla Gestapo?”.
Tutte le sue operazioni chirurgiche messe insieme non gli avevano causato tanta sofferenza. Passava attraverso tutti i tormenti dei dannati, mentre le ore si consumavano con torturante lentezza. Udendo trillare il telefono, corse all’apparecchio e staccò il ricevitore con mano tremante. Era l’incaricato d’affari americano, Mr. Wiley, che già era venuto ad offrire i suoi servigi la domenica precedente, appena saputo che i nazisti avevano invaso l’abitazione dei Freud.
“Professore, sono stato informato dell’arresto di sua figlia e ho immediatamente fatto una visita ufficiale di protesta. Sono riuscito a parlare con un alto ufficiale e credo che abbia preso in seria considerazione il mio passo. Può star certo che continuerò a insistere finchè sua figlia venga rilasciata”.
Il tempo non passava mai. Sigmund vagava di stanza in stanza e cercava di calmare la paura fumando un sigaro dopo l’altro. La casa era silenziosa come un obitorio a mezzanotte. Nessuno tentava di confortare gli altri. Che c’era da dire? Tutto quello che potevano fare era pregare e stare in ascolto, se mai s’udisse il passo di Anna per le scale.
Mezzanotte… Le quattro… Le cinque…
E non una notizia, non un segno.
“Se perdo Anna, se le fanno del male, se la deportano”, si diceva Sigmund, “per me sarà la fine del mondo. E sarò stato io, io solo, a far cadere questa catastrofe sulla mia famiglia”.
Il buio accresceva il terrore. Nessuno accendeva una lampada. Fu portato il caffè. Nessuno lo toccò. L’ultimo residuo di forza, in Sigmund s’era spento.
Martha faceva del suo meglio per resistere alla tensione, ma stavolta non poteva aiutare il marito.
Arrivò Martin e si diede a sgambare da una stanza all’altra come una tigre in gabbia.
E finalmente, ecco Anna. Entrò aprendosi ella stessa la porta, con la sua chiave. Tutti gli occhi erano su di lei.
“Sto bene”, disse.
L’intervento dell’incaricato d’affari americano aveva certamente giovato; ma in ultima analisi erano stati il suo acuto spirito d’osservazione e il suo buon senso a salvarla. Ella sapeva che tutti gli arrestati che non subivano l’interrogatorio durante la giornata, di notte venivano spazzati via come rifiuti, gettati su autocarri e poi su carri merci, e spediti per ignota destinazione.
Per sfuggire a questa sorte aveva fatto sentire la propria presenza, insistendo per essere interrogata.
L’interrogatorio era durato più d’un’ora; poi l’avevano rilasciata.
“GRAZIE A DIO”, ESCAMO’ SIGMUND, “SEI SALVA! DOMANI INIZIEREMO I PREPARATIVI PER LASCIARE VIENNA”.
A Londra, Ernest Jones si dava instancabilmente d’attorno per ottenere i visti e i permessi di lavoro. I rifugiati non erano bene accetti in Inghilterra in questo disgraziato periodo; il loro mantenimento doveva essere garantito da cittadini inglesi e i permessi di lavoro erano quasi sconosciuti.
Jones andò direttamente alla Royal Society, che due anni prima aveva onorato Sigmund Freud nominandolo suo membro. Raramente essa interferiva in faccende politiche; ma Sir William Bragg, medico di fama mondiale e presidente della Society, garantì il proprio appoggio e diede a Jones una lettera di presentazione per il ministro degli Interni, Sir Samuel Hoare. Jones perorò brillantemente la causa che gli stava a cuore e non tardò ad accorgersi che il ministro ascoltava con simpatia ogni sua parola. Ebbe carta bianca per la compilazione di tutti i permessi necessari per il professor Freud, per la sua famiglia, per il suo medico personale e per ogni altra persona la cui presenza potesse giovare al suo benessere.
Ma proprio allora la situazione si fece critica. Dovette trascorrere tre mesi, tre mesi di frustrazione e di ansia, perché i nazisti non volevano rilasciare il loro più famoso ostaggio.
Sigmund passava le sue giornate rispondendo alla corrispondenza, continuando la terza parte di Mosè e il monoteismo, traducendo con l’aiuto di Anna il libro di Marie Bonaparte sul suo cane cinese Topsy.
Era diventato una cause célèbre (è per questo motivo che Riccardo Dalle Luche dice che Freud era una personalità Sei al pari dello stesso Adolf Hitler: un instancabile progettista, ndr).
I nazisti s’impadronirono dei suoi depositi in banca, confiscarono tutti i volumi della Casa editrice, costrinsero Martin a far rientrare in Austria pubblicazioni e denaro che aveva messo al sicuro in Svizzera. L’ambasciatore americano a Parigi, William C. Bullitt, chiese ed ottenne che Franklin D. Roosevelt intercedesse in favore di Freud; quindi sollecitò il suo collega tedesco a procurare i documenti necessari. Benito Mussolini – al quale Sigmund aveva una volta mandato un suo libro con dedica autografa, per desiderio del padre d’un suo paziente italiano – fece diretta richiesta a Hitler di lasciar partire i Freud da Vienna…”.
Cosa che avvenne.
In Italia non si parla del fatto che fu Mussolini a contribuire a salvare la vita a Sigmund Freud, lo stesso Mussolini che due anni più tardi avrebbe dichiarato guerra a Francia e Inghilterra dal balcone di Palazzo Venezia commettendo l’errore più grave della sua vita.
Freud morì sei mesi dopo, il 23 settembre 1939. Fece in tempo a vedere da Londra l’invasione della Polonia da parte dell’“uomo senza inconscio” Adolf Hitler.
Ma aveva sbagliato: l’egoismo etero-dirige la Ragione.
Ha pagato quest’errore con la vita?
Resta il fatto che la sindrome di hybris è frustrata dalla realtà.
Ma c’è chi osa esplorare il deserto, e si sente un impostore.
di Alexander Bush