Siamo proprio sicuri che Berlusconi fosse l’esempio negativo? Parola di Piero Ottone
C’è un problema che affligge l’attuale generazione che esce con le ossa rotte dalla Contestazione del 1968 e dal buonismo catto-comunista: l’ottenimento del massimo risultato con il minimo sforzo. Il reddito di cittadinanza è un provvedimento criminogeno, perché crea un “Paese senza lavoro e con assistenzialismo” come ha osservato giustamente Elsa Fornero. In una situazione sociale gravemente compromessa dalla patologia di Pinocchio, mentre si affaccia il big business della Nuova Via della Seta (è inutile spiegare perché), chi scrive menziona un episodio personale. 17 anni di età, in macchina con Piero Ottone. “Alex, non hai studiato il francese. C’avrei giurato. Io sono diventato giornalista studiando le lingue”. Non sapevo cosa rispondere, il mio volto cominciava a sfiorare il pallore. Mio nonno, al volante della sua Polo a 81 anni di età da Camogli a Sanremo per raggiungere Italo Ruscigni, spalanca gli occhi producendo lampi di rabbia nel vuoto ben noti a Enzo Bettiza ne “Via Solferino” e alza discretamente la voce: “Guarda che Berlusconi sgobbava, sgobbava e sgobbava: lavorava come un negro, così è diventato un imprenditore di successo!”.
Ma il francese, chi scrive ha continuato a non studiarlo, e due anni più tardi è arrivata la bocciatura al quinto anno di liceo, una carriera che è stata quasi compromessa da due bocciature prima di strappare il diploma con 76 centesimi.
Chi scrive non ha mai dimenticato l’episodio, anche se i consigli in genere non servono a granché.
In ogni caso il fatto si collega in prospettiva al libro “Il gioco dei potenti”, pubblicato dalla Longanesi nel 1986, alla voce “Case, televisione: anche potere?” dove Ottone stendeva un agile ritratto dell’imprenditore in ascesa Silvio Berlusconi.
Una lezione per i giovani che pensano di tirare a campare con il reddito di cittadinanza, ma soprattutto: che non hanno capito che soltanto la creatività e la fantasia unitamente allo sforzo di faticare sono l’unica risorsa che potrà salvarli dalla crisi irreversibile del patto fiscale degli Stati in Occidente. I giovani di oggi – mentre The Average is over (“la media è finita” secondo l’economista americano Tyler Cowen) – possono inventarsi e sopravvivere soltanto assumendo a esempio un uomo di successo come Silvio Berlusconi. Vedremo come.
Era il febbraio del 1986, quando Piero Ottone un po’ berlusconiano registrava nel capitolo “Case, televisione: anche potere?”:
“Oltre alla finanza, un’altra attività è destinata a creare grosse fortune, e a lanciare nuovi personaggi, in una società in rapida espansione: la costruzione.
Silvio Berlusconi, fra tutti i costruttori, fu quello destinato a ottenere il maggior successo. Figlio di un dirigente di banca, senza beni di fortuna, pieno di idee, Silvio doveva fare molte cose per bruciare un eccesso di vitalità; magari cantare nei bistrò di Parigi, o sui transatlantici, magari presentare programmi musicali, pur di impegnarsi in compiti che fossero al limite delle sue capacità.
“Quella di tenere impegnato un pubblico per tutta una serata all’età di diciotto anni”, egli disse poi, “era, chiaramente, una mia tipica presunzione”.
Poi gli venne l’idea di comperare e vendere case, e cominciò, a quanto sembra, con una sola casa, ma l’affare andò bene, e gli permise di continuare. Creò un’agenzia, e racconta che, rispondendo al telefono, cambiava voce, fingendo di essere prima il centralinista, poi il titolare, in realtà tutta l’agenzia era lui. I primi affari furono soddisfacenti; con rapidità egli ingrandì l’agenzia ed estese la sua attività, fino a costruire un’intera città satellite, Milano 2. La ragione essenziale per cui lo fece era sempre quell’eccesso di vitalità, quel bisogno primordiale di misurarsi in compiti sempre più difficili per bruciare la sua esuberanza; compiti al limite delle sue possibilità, tali da tenerlo sveglio la notte, da togliergli la pace.
Ma poi c’era anche il bisogno di giustificare a se stesso quegli sforzi, quella fatica, quei rischi; non gli bastava il pensiero che tutto fosse fine a se stesso, e doveva prefiggersi un obiettivo superiore, più razionale, più convincente. Allora pensava che faceva quel che faceva per diventare ricco e importante, per vivere come i grandi della terra, fra folte schiere di servitori, in ville e palazzi, avendo a disposizione automobili lussuose, yacht, aeroplani; e godendo l’amicizia dei suoi pari, di quelli che sarebbero stati i suoi pari, gli eredi delle grandi famiglie, che lo avrebbero invitato nei loro palazzi e nelle loro ville, e i cui inviti sarebbe stato in grado di ricambiare.
Le due linee, quella della realtà e quella dei desideri, avanzavano una accanto all’altra, una indipendente dall’altra, da una parte c’era l’attività affannosa di ogni giorno, dall’altra il mondo del sogno verso il quale aspirava, e nessuna delle due interferiva con l’altra: lavorava, lavorava, e intanto sognava. Milano 2 fu un successo, che gli costò, naturalmente, sforzi enormi. Dovette perfino deviare il volo degli aerei che facevano scalo nell’aeroporto di Linate, per evitare il rombo dei motori alle orecchie dei condòmini nella sua città perfetta.
Guadagnò grandi somme di denaro; e se le guadagnò tutte lui, senza doverle dividere con nessuno.
Alla fine dell’impresa, si ritrovò un uomo ricco, in grado di soddisfare le aspirazioni per le quali aveva creduto di lavorare per tanto tempo in modo affannoso, a un ritmo estenuante; e senza più compiti difficili da assolvere. Investì parte delle ricchezze in case e in barche, per vivere come credeva che gli sarebbe piaciuto vivere: una palazzina in città, che molti avrebbero considerato una lussuosa residenza per una famiglia numerosa, e che lui teneva come semplice pied-à-terre, qualche cosa di mezzo fra un ufficio e una foresteria (ma aveva altri uffici in Foro Buonaparte); una villa enorme, con un vasto parco, ad Arcore, mezz’ora da Milano; la palazzina era stata dei Borletti, la villa dei Casati; una collezione di quadri antichi e moderni; un appartamento a Roma; una casa a Portofino; un grande yacht che teneva ai Caraibi, un altro nel Pacifico, magnanimamente imprestato a un amico; e naturalmente un aeroplano.
Bene, il suo successo era consacrato, c’era tutto il necessario per dire che era, secondo l’espressione corrente, un uomo arrivato; e poi? Era immaginabile che trascorresse il resto dei suoi giorni fra i lussi che si era guadagnato? Poteva continuare a costruire, e infatti, inevitabilmente, dopo Milano 2 mise in cantiere Milano 3. Ma il periodo della grande espansione edilizia era terminato, l’ora della costruzione era passata. Si poteva solo perfezionare quel che aveva fatto: per esempio, attrezzare le case di Milano 2 con un circuito televisivo chiuso, via cavo, per il maggior piacere dei condòmini… E quello fu l’inizio del secondo ciclo nella sua esistenza.
A partire dal 1976, i grandi pascoli della televisione commerciale erano stati aperti agli italiani dalla sentenza della corte costituzionale che poneva fine al monopolio televisivo dello Stato. Berlusconi aveva uno strumento in mano, quell’embrione di televisione di Milano 2. Poi aveva la predisposizione allo spettacolo, l’istinto che lo spingeva a mettersi davanti agli spettatori e a catturarne l’attenzione, come aveva fatto da giovane. C’erano le premesse: non rimaneva altro da fare che andare avanti.
Presto fu chiaro che la televisione offriva tutto ciò di cui la sua natura aveva bisogno. C’era di nuovo un compito difficile da assolvere, che richiedeva grossi investimenti, quindi grossi investimenti, quindi grossi impegni, che lo avrebbero tenuto sveglio la notte. C’era la possibilità di fare spettacolo, e a lui piaceva fare spettacolo, assoldare cantanti e comici, ma soprattutto comperare tanti film, tanti teleromanzi, per affascinare il pubblico, per farlo crescere a dismisura, per mettere insieme ogni sera milioni di telespettatori. E poi c’era l’emozione del rischio, come quando aveva comperato e venduto le prime case. Si gettò quindi nella televisione, anima e corpo.
Andò negli Stati Uniti, per vedere che cosa facevano gli americani, per conoscerli, per gettare le basi di rapporti di lavoro. Andò in giro per l’Italia, per creare una rete televisiva. Ma soprattutto andò in cerca di clienti per la pubblicità; la televisione privata vive di pubblicità, il pubblico riceve i programmi in casa senza pagare una lira, tutto si mantiene con i contratti pubblicitari. Bisognava dunque vendere, per sopravvivere, molti spazi pubblicitari, per miliardi e miliardi. Berlusconi si rivelò un maestro.
Rimaneva il problema politico. Ogni Stato è scontroso in materia di comunicazione, è geloso delle sue prerogative, stabilisce limitazioni severe. La corte costituzionale aveva chiesto al parlamento di legiferare, e di farlo in fretta… Pensarono dunque i socialisti a scoraggiare ogni sia pur debole tentazione degli altri partiti per legiferare in materia di televisione… Così, senza limitazioni legislative, e con la benevolenza dei socialisti, Berlusconi potè impiegare tutte le sue risorse finanziarie, che erano ingenti, straordinarie, stupefacenti, e tutto il suo talento personale, che era notevole anch’esso, per combattere su due fronti: la RAI da una parte, i concorrenti privati dall’altra. Nel giro di qualche anno riuscì a battere la concorrenza, sfruttò bene il vantaggio di essere partito per primo, e alla fine emerse (sempre in un paese senza una legge sulla televisione, in un paese definito all’estero l’esempio da evitare) come Mister Television, come l’unico operatore televisivo importante di fronte alla RAI.
Posizione di potere enorme? Sì, certamente; per lo meno in teoria… Berlusconi è il padrone della televisione commerciale in Italia, ma l’influenza che esercita sull’opinione pubblica, mediante sue libere decisioni, è infinitesimale rispetto a quella che esercitarono Albertini o Frassati, quando dirigevano il Corriere della Sera o la Stampa…”.
Ps – Ecco, se c’è un modello per i giovani è lo sgobbone Silvio Berlusconi, parola di Piero Ottone (che tra l’altro non era il satrapo della Televisione ma il suo liberalizzatore mercatista).
Il successo non è gratis, mentre si annuncia il secolo cinese.
di Alexander Bush