“Non riuscivo più a staccarmelo dal letto. Piangeva a dirotto, si disperava, non faceva che chiedermi come mi sentissi. Gli feci notare che avevano sparato a me, non a lui. Non ci fu nulla da fare. Mi toccò fargli coraggio: temevo che mi svenisse da un momento all’altro”.
Indro Montanelli, giugno 1977: era stato gambizzato dalle Brigate Rosse
Se la vita ha un lato di tragedia, è giunto il momento di parlare di lui.
Una parola è chiave nell’avventura terrena conclusa di Silvio Berlusconi, l’uomo più potente d’Italia dopo Benito Mussolini e che come Benito era guidato da una intrinseca irrazionalità nell’“elan vital” del temperamento ipomaniacale: diniego. Il diniego – lo sapeva bene Sigmund Freud, nel quale era all’opera nel palcoscenico della Salpetrière – è un motore potentissimo, un vero giano bifronte; può portare molto in là, ma può portare anche alla rovina.
E in rovina Silvius Magnus potè finirci innumerevoli volte: tutti i suoi compagni di strada, da Angelo Rizzoli a Michele Sindona, sono finiti male. Anzi, malissimo. E sognavano a occhi aperti come Sua Emittenza. Ma sono stati meno fortunati, e la Dea Fortuna è un’entità maligna che ha portato l’ex immobiliarista Donald Trump a dire nella sua spietatezza verso se stesso, prima ancora che verso gli altri: “Ciò che separa i vincitori dai perdenti è il modo in cui una persona reagisce ad ogni nuova svolta del destino”.
Vorrei qui richiamare l’attenzione su un passaggio interessante dell’intervista di Peter Gomez a Eleonora Giorgi di alcuni mesi fa, la ex moglie dello sfortunato produttore cinematografico caduto nella polvere – nel polytropos affannoso delle sue attività – Angelo Rizzoli, artista come Silvio e che, come il collega di loggia Silvio, aveva fatto il passo più lungo della gamba:
ß “GOMEZ: “… Questa è la foto di Licio Gelli, è l’81 e viene scoperto l’elenco della P2; suo marito è nell’elenco, c’è anche il direttore generale Bruno Tassan Din. Mi racconta cosa succede in casa?”
ELEONORA GIORGI: “Mi telefona un critico cinematografico dell’epoca: “Eleonora, ma che succede? Qui dicono che cambia il direttore”. “Guarda, glielo chiedo. Ti faccio sapere, e lo chiamo; gli dico: “Angelo, ma è vero che cambiano direttore? Una domanda così, perché non c’entrava niente nella nostra vita: “Ma figurati! Chi ti dice queste cretinate?” “Il giorno dopo l’hanno cambiato”.
PETER GOMEZ: “Licio Gelli l’ha mai incontrato? Ortolani nemmeno?”
“No. Ma non solo. Angelo negava completamente. E quando gli ho detto questa cosa: P2, che cos’è questa cosa, dice: “Ma che cosa ne so, sarà un club di amici”.
Dice: “Figurati se io sto col compasso e il cappuccio in testa”; lo ridicolizzava. Lui mi disse: “Io non accetto critiche da nessuno. Meno che mai da mia moglie; se ti va, è così, sennò la porta è là”.
GOMEZ: “Si è sentita tradita nella fiducia a un certo punto da suo marito?”
“Assolutamente”.
GOMEZ: “Senta, poi diceva lei: nell’83 arriviamo al momento più drammatico; arriva la Guardia di Finanza, che entra in casa vostra, lo arresta all’alba per il crac.”
GIORGI: “E lui mi dice: io me lo aspettavo. “Adesso tu però mi devi dire tutto”. Mi aveva detto tutte bugie. Ma Angelo non riesco a definirlo un bugiardo. Aveva una realtà inventata, alla quale finiva per credere anche lui, che è la cosa più pericolosa…”.
Il giorno stesso della scarcerazione, dopo un anno di detenzione, Rizzoli junior incontra Silvio Berlusconi (sono entrambi iscritti alla P2), e Sua Emittenza lo trasformerà in un produttore cinematografico di successo: gli dà una seconda chance. Un comportamento quasi anglosassone, quello di Berlusconi: sia detto di passata. Il successo è l’altra faccia del fallimento.
Vorrei allora ricordare un momento drammatico – non è stato l’unico, a dire la verità – nella vita del Cavaliere, dieci anni dopo. E’ il 1993, Silvio è oppresso da 7000 miliardi di debiti con la magistratura alle porte, e si trova tra gli stati misti: frustrazione ed eccitazione si mescolano; la condizione mista è destabilizzante, e può sfociare nel passaggio all’atto suicidario (cosa che a Raul Gardini succederà). Piero Ottone che era Cartesio – tutto ragione e fantasia zero – e aveva avuto un rapporto trentennale con Berlusconi – suggerì a Gordon Gekko (tutto arcani istinti e ragione nemmeno l’ombra) di vendere una delle tre reti televisive, e il suo interlocutore rimase sofferentemente in silenzio: Ottone “nomen omen”, lo metteva con le spalle al muro e la notte non dormiva pensando a come uscire da 7000 miliardi di debiti. Ecco la “liaison dangereuse” tra frustrazione ed eccitazione che è informata in quanto tale dal “diniego”: “… Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e che mi distruggeranno. Che mi faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte. Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere quando sono sotto la doccia…”. E’ stato lo stesso Confalonieri a confermare questo a “la Repubblica” in un’intervista di Curzio Maltese del 2000; contestualmente Silvio ha un’intuizione geniale: un discorso di 13 minuti, un messaggio videofilmato che annuncia la sua discesa in campo dalla tenuta di Arcore con il “falso verosimile” che è la vera cifra dell’esistenza di Silvio, con tanto di libreria finta e simbologia esoterico-massonica che secondo Enrico Deaglio era “roba da psichiatri”. Operazione geniale, con buona pace di Nanni Moretti.
Piero Ottone, che tra i mille volti dell’Innominabile – “essere molte cose significa essere nessuno: lo ha detto Kant”, parola di Romain Gary – ha visto Silvio cullare Barbara mentre piangeva a Roma in piazza Navona con un affetto che forse si addice solo a Gordon Gekko, aveva scritto in “Preghiera o bordello – Storia, personaggi. Fatti e misfatti del giornalismo italiano”:
“In Italia, i cambiamenti di regime sono melodrammatici. Nel 1943, colui che era stato il dittatore incontrastato per vent’anni uscì da Villa Savoia, residenza del re, in un’autoambulanza, e fu messo agli arresti. L’impalcatura fascista crollò in poche ore, la mattina del 26 luglio centinaia di migliaia di distintivi furono sfilati silenziosamente dall’occhiello della giacca. Cinquant’anni più tardi, coloro che fino a qualche giorno prima stavano quietamente spartendosi il Quirinale, Palazzo Chigi e la Farnesina dovettero fuggire all’estero, o presentarsi ai magistrati che indagavano sul loro passato.
In breve tempo si creò una situazione molto precaria. Le istituzioni dello Stato persero credibilità. La magistratura fu lacerata da lotte interne, vilipesa, contestata. La Guardia di Finanza fu definita, tutta intera, “un’associazione a delinquere”. Il presidente della Repubblica fu sottoposto ad attacchi martellanti e volgari, minacciato di impeachment. E’ poi vero che il sistema di potere reale, nonostante i terremoti interni, è abbastanza statico nel nostro paese, come un fiume sotterraneo che scorre tranquillo sotto la superficie, invisibile. Ma il potere reale, per funzionare, ha bisogno di strutture. A partire dal 1993, le strutture della repubblica sembrarono in corso di smantellamento. Fra i detentori del potere reale, un personaggio si rese conto in quei giorni di correre pericoli gravi. Silvio Berlusconi aveva conseguito nella sua vita di imprenditore successi straordinari, grazie a due intuizioni geniali. Aveva capito ai tempi del travolgente sviluppo economico (il “miracolo”) che la domanda di abitazioni sarebbe stata massiccia, e costruì alla periferia di Milano una città satellite, Milano Due. La seconda venne quando si rese conto che la crescita dei consumi stava creando un vasto potenziale di spesa pubblicitaria e diede vita alla televisione commerciale per aggiudicarsela. Diventò così uno degli uomini più ricchi d’Italia, anzi d’Europa. La sua ricchezza fu protetta da un vasto labirinto di aziende, tutte di proprietà familiare, in cui si sarebbe perso il più paziente degli investigatori. Poteva quindi manovrarla fra Italia, Svizzera e altri paradisi fiscali, fuori da ogni controllo. All’improvviso, la caduta del regime creò per lui una situazione ad alto rischio.
Il successo di Berlusconi era dovuto alle sue qualità personali, ma l’appoggio politico era stato un fattore indispensabile; e ne aveva sempre bisogno. Adesso, a un tratto, il suo massimo protettore, Bettino Craxi, era ridotto con le spalle al muro, e prossimo alla fuga ad Hammamet: faceva fatica a proteggere sé stesso. Il partito socialista stava scomparendo. Gli amici democristiani erano a loro volta in difficoltà. Berlusconi si rese conto di essere allo scoperto, privo di barriere protettive, sul punto di cadere in balìa degli avversari politici, dei comunisti che per tanti anni lo avevano minacciato da lontano. Ora i nemici stanno riavvicinandosi: sentiva il loro fiato sul collo.
La crisi politica, d’altra parte, esplodeva, e lo metteva sotto tiro, nel momento meno opportuno: le disgrazie non vengono mai sole. Oltre ai problemi economici c’era un problema di debito. L’impero berlusconiano, come spesso accade agli imperi costruiti dal nulla, che crescono, crescono, e non si sa mai quando conviene fermarsi, aveva finito con l’espandersi troppo; le incursioni all’estero, specie in Francia, erano state costose; l’acquisto della Standa, forse, era stato imprudente.
L’indebitamento aveva raggiunto dimensioni preoccupanti; ed essendo stato contratto in buona parte su banche dello Stato, risentiva a sua volta della nuova situazione politica. Un tempo, le banche statali erano benevole; ma adesso? Su tutto sovrastava infine la minaccia giudiziaria; i magistrati indagavano sui conti svizzeri di Craxi, e non potevano non imbattersi prima o poi nei conti di Berlusconi. Tutte le maggiori imprese italiane avevano problemi con la giustizia; come se la sarebbe cavata la Fininvest di Berlusconi, che di tutti era il più esposto? Berlusconi passò giornate difficili; le più difficili, forse, da quando si era lanciato nelle sue avventure di imprenditore.
Apprensivo di natura, si trovava ora di fronte a pericoli immani, senza precedenti; temeva le vendette dei nemici, temeva il crollo. Poteva tentare nuove difese, cercare nuovi protettori; ma ci sarebbe riuscito, in quattro e quattr’otto?
E cominciando da dove? Oppure, oppure… Oppure, ecco l’altra strada, temeraria e inebriante: poteva proteggersi da solo, facendo politica in prima persona; poteva sostituirsi a Craxi e Andreotti, scendendo in campo con lancia e scudo, come un guerriero. Gli amici, i collaboratori più stretti, da Fedele Confalonieri a Indro Montanelli, spalancavano gli occhi e gli chiedevano se era diventato matto. In politica? Da novizio? A farsi infilare? Le loro obiezioni, i loro ammonimenti centuplicavano i suoi timori: sapeva anche lui che la politica era un nuovo mestiere, che non aveva mai fatto, e per il quale, forse, non era tagliato; capiva che si sarebbe esposto a attacchi, persecuzioni senza fine. Per difendersi, si sarebbe esposto come non mai. Non dormiva la notte, fra tanti fantasmi; e disse che “sudava sotto la doccia”. Ma alla fine decise. Ezio Cartotto, un democristiano che ebbe con lui qualche incontro, racconta che fu Bettino Craxi a dargli coraggio.
In un salottino della villa di Arcore, poco prima di rifugiarsi ad Hammamet, Craxi lo spinse a fondare un partito; con una sigla indovinata, disse, con qualche alleanza, e con tutte le televisioni al suo servizio, ce l’avrebbe fatta. Il consiglio di Craxi, secondo Cartotto, fu decisivo: alla fine del colloquio con Craxi, Berlusconi sembrò rasserenato. “Adesso ho deciso”, dichiarò. “Bisogna agire”. Può darsi. E’ tuttavia probabile che avrebbe deciso comunque di fare politica, anche senza i consigli di Craxi. Entravano in giuoco nuove ambizioni, in primo luogo quella di atteggiarsi a salvatore della patria; e gravi frustrazioni, per esempio quella di dovere affidare la gestione della Fininvest a un salvatore, Franco Tatò, designato dalle banche per sanare i debiti, e con il quale la convivenza era impossibile perché né Berlusconi né Tatò erano capaci di gestire il potere a metà.
Ma tutto questo rientra nel processo alle intenzioni, e le intenzioni sono quasi sempre imperscrutabili. Quel conta è la situazione di fatto. Con audacia quasi incredibile, Silvio Berlusconi mirò a Palazzo Chigi, lo conquistò, collocò i collaboratori aziendali in posti chiave del governo e del Parlamento, e immediatamente se ne servì per prendere provvedimenti utili all’azienda, adatti a proteggerlo sul fronte giudiziario. E grazie a lui, ma forse è più giusto dire per colpa sua, se la crisi italiana ebbe uno sbocco imprevedibile; una situazione che già era caotica, fra istituzioni nazionali vacillanti e di scarsa credibilità, ebbe un dénoument più melodrammatico che mai. Un uomo d’affari inseguito dalle indagini dei magistrati formò un nuovo partito in tre o quattro settimane, e diventò presidente del Consiglio. Non si era mai visto niente di simile…”.
Marcello Dell’Utri, uomo di genio e dotato come Silvio di un “inside” pratico, diede un contributo fondamentale all’esecuzione dell’operazione Botticelli: un gambling alla Napoleone.
Era in una condizione mista anche il ravennate Raul Gardini, ed è stata raccontata da Matteo Cavezzali con un coup de theatre nel suo masterpiece “Icarus, ascesa e caduta di Raul Gardini” che trovò un’unica uscita di sicurezza nel passaggio all’atto suicidario. Il suicidio come opzione di romanticismo. Il suicidio al termine di un’esistenza caratterizzata dal diniego di un giocatore d’azzardo che non rifiatava mai: “Io penso che la vita debba essere vissuta fino in fondo, anche se a volte fa venire il mal di stomaco”.
Se non fosse morto, sarebbe nato il processo “Mafia-Appalti”; se Tommaso Buscetta fosse morto, non ci sarebbe stato il maxiprocesso. Di Gardini non si può non ricordare il volto tremebondo.
Sogno e realtà. A volte il conflitto è insostenibile. Una linea Maginot separava Raul dall’uomo di Arcore. Non era il fatto che uno aveva le televisioni e l’altro no; no, c’era dell’altro. E’ la geometria dello Zeitstil, ed è imperscrutabile nella selezione spietatamente darwinista che fa tra vincitori e vinti scelti a casi, come una partita di poker.
Nel 1994 Silvio Berlusconi entrava in politica, e Indro Montanelli – che con lui aveva avuto un rapporto ventennale: i due si amavano, e se uno era ciclotimico l’altro era ipomaniacale; né Silvio né Indro avevano un rapporto autentico con il reale – osservava con fulminante lucidità sulla “Voce”: “Uno strazio aggiuntivo di questi torridi giorni sono per me le apparizioni sul video del Cavaliere che, avendone a disposizione sei tra pubblici e privati, non perde occasione di abusarne… A opprimermi è il sorriso con cui Sua Presidenza accompagna le parole: tirato, stirato, studiato col consueto piglio cosmetico, ma ormai completamente estraneo a un volto non più bene ambrato come una volta, ma lucido di sudore. Non erano questi i sorrisi di Berlusconi quando non era ancora “il Cavaliere”. Anzi, quelli non erano nemmeno sorrisi, ma risate: belle, aperte, squillanti, a gola spiegata. A provocarle ci voleva poco: un aneddoto, una battuta, una barzelletta anche da fureria. Ma soprattutto lo esilaravano le proteste dei suoi amici quando lo coglievamo con le mani nel sacco di qualche bugia. Perché bugiardo Silvio era anche allora. Mentiva senza accorgersene, come io e voi respiriamo, e disinteressatamente: per il piacere infantile d’inventare e senza nessuna pretesa che noi gli credessimo, spesso coinvolgendo nella menzogna sua moglie – la prima, l’adorabile Carla – che lo secondava, ma lasciando ben capire che non lo faceva per complicità, ma per una sorta di materna indulgenza. Perché era l’indulgenza che Silvio ispirava, non soltanto a sua moglie, malgrado i suoi già strepitosi successi. La ispirava con la sua primaverile freschezza, il suo calore umano, la forza trascinante e contagiosa dei suoi entusiasmi, la disarmante sincerità delle sue menzogne. Le diceva perché non distingueva fra sogno e realtà. E forse è per questo è riuscito a tradurre in realtà questi sogni. Fra i più assidui partecipanti a queste meravigliose cavalcate di Silvio in quello che allora sembrava il mondo della sua fantasia, c’era anche suo padre, un anziano signore discreto e cortese, pensionato della Banca Rasini, che ascoltava il figlio in silenzio, fisso l’occhio sul cronometro, e biascicando qualcosa che sui primi tempi ritenevo degli scongiuri. Un giorno, avvicinatomi di più a lui, sentii che mormorava, nelle pause del soliloquio di Silvio: “Desmila… Vintmila… Trentmila…”. Gliene chiesi con lo sguardo il significato. “Sono”, mi mormò all’orecchio, “gl’interessi che, mentre lui parla, stanno maturando nelle banche sui suoi debiti”. Silvio amava profondamente quel suo padre sommesso e sottomesso, sebbene fosse la sua antitesi, o forse proprio per questo; e che – dicevano – aveva un tale rispetto del denaro che, quando citava il suo amico Ottolenghi, lo chiamava Settelenghi per risparmiare un lengo. Il pover’uomo cercava di tenere quella specie di Grande Gatsby, che la sorte gli aveva assegnato come figlio, ben ancorato alla realtà, ma in fondo ne era – come tutti noi – affascinato, lo guardava con gli stessi occhi con cui gli astanti dovettero guardare Nostro Signore quando disse a Lazzaro: “Alzati e cammina”; ma senza mai liberarsi del terrore che con Silvio il miracolo non si ripetesse. Silvio soffrì moltissimo per la morte del padre. Lo vidi piangere come una vite tagliata, e quella volta erano lacrime vere. Qualche giorno dopo, parlando di lui, mi disse: “D’ora in poi mio padre sei tu”. Mi chiedo a quanti altri lo abbia già detto, o stava per dirlo. Ma sono arciconvinto che a tutti lo diceva con la stessa assoluta sincerità. Ecco perché mi fa tanto male vederlo sul video con quel sorriso fasullo. Quasi un ghigno, che non ricorda neanche da lontano la bella risata fresca e squillante del Silvio di Arcore, non ancora Cavaliere. Quante bugie mi diceva anche allora.
Ma come volergliene? Erano le sue chanson de geste, qualcosa di mezzo fra I tre moschettieri e Il barone Munchausen, senza nessuna pretesa di credibilità.
Ora le presenta come un programma di governo che, anche se mantenuto al 5%, non basterebbe più a chiamarlo “miracolo”. A ognuna di esse, quando gliele risento snocciolare dal video, mi viene fatto di biascicare: “Desmila… Vintmila… Trentmila…”. Ma senza nessuna speranza che stavolta Lazzaro si alzi e cammini” (la Voce, 22 luglio 1994)
You can’t have the cake and eat it. Ma Silvio è riuscito ad avere la torta e a mangiarsela. Ma – in ogni caso – non è un esempio da imitare.
di Alexander Bush