Su Emanuela Orlandi parli papa Francesco

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Questo è un atto d’accusa. E non è pasoliniano. Il 22 giugno 2018, in una caldissima Italia borderline, cade il 35esimo anniversario del sequestro, del probabile stupro e dell’omicidio di una ragazzina di 15 anni: Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa a Roma alle porte di Piazza Navona – che chi scrive purtroppo conosce bene nella sua delinquenziale anti-socialità post Banda della Magliana.
Ci sono indizi di luce in fondo al tunnel: Pippo Calò, cassiere di Cosa Nostra recluso al 41 bis, ha contattato i legali della famiglia Orlandi: è un fatto senza precedenti; Giovanni Paolo II aveva un solo obiettivo nella sua egomania da Papa superstar: finanziare Solidarnosc di Lech Walesa con il sangue delle siringhe di migliaia di ragazzi fragili senza aspettare che il regime bestiale dell’Unione Sovietica implodesse, e che gli eventi facessero il loro corso. Si, è proprio così: il presunto santo Karol Wojtyla aveva stipulato con il suo narcisismo tra il 1978 e il 1983 (cioè l’altro ieri) un patto con Cosa Nostra per buttare giù l’Impero del Male ed era in contatto diretto con i sequestratori di Emanuela: Paul Marcinkus e i suoi soci in affari di sangue e droga.
Art. 27 Cost.: “la responsabilità penale è personale”. Così scrisse l’ex giudice istruttore Mario Almerighi: “I soldi concessi al Vaticano per sostenere Solidarnosc e la Chiesa in varie parti del mondo, in nome della lotta al Comunismo, il “banchiere di Dio” (Roberto Calvi, ndr) non li riavrà mai. E quelli gestiti per conto della mafia tramite lo Ior non potrà più restituirli. Per lui non c’è scampo”.
Ecco perché due anni dopo, nell’83, viene rapita Emanuela: ci sono in ballo ancora 600 milioni di euro. Lasciamo la parola a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, sopraffatto dal dolore ma chiaro nel suo riassunto moralmente devastante – oltretutto testimone del segreto di Stato vaticano tutelato dalla permanente secretazione del codice 158 delle telefonate intercorse tra Agostino Casaroli e presunti agenti dei servizi segreti (che grida indignazione al cospetto di Dio) su Micromega:
“Io so chi ha rapito Emanuela: è un sistema che lega Stato, Chiesa e criminalità e che ormai da 35 anni impedisce alla verità di emergere. Quel 22 giugno di tanti anni fa…
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui mia sorella, Emanuela, scomparve. Era una giornata caldissima. I miei genitori non erano in casa, avevano pranzato presto ed erano andati da mio zio. Come accadeva spesso Emanuela mi chiese di accompagnarla al corso di musica che frequentava nel complesso della basilica di Sant’Apollinare (studiava pianoforte, flauto e canto corale) ma quel giorno non potevo perché avevo un appuntamento. Ci fu una litigata. Lei sbattè la porta e se ne andò. Tanti in questi anni hanno cercato di consolarmi dicendomi che se non fosse accaduto in quel giorno sarebbe accaduto in un altro, ma io mi sono chiesto mille volte come sarebbero andate le cose se l’avessi accompagnata. Anche perché quello era l’ultimo o il penultimo giorno di scuola – stavano preparando il saggio che avrebbero fatto il 29 giugno – per cui non ci sarebbero state altre occasioni di avvicinarla lungo quel tragitto. Prima di entrare a scuola fu fermata da una persona che le offrì un lavoro: avrebbero dovuto distribuire volantini della ditta di cosmetici Avon a una sfilata delle sorelle Fontana presso la Sala Borromini, in piazza della Chiesa Nuova. La persona che l’avvicinò fu molto rassicurante: l’invitò a consultarsi con la famiglia, le consigliò di farsi accompagnare dai genitori. Siamo a conoscenza di tutto ciò perché poco prima di uscire da scuola (verso le 18:50) Emanuela chiamò a casa e, non essendoci i nostri genitori, parlò con nostra sorella Federica e le raccontò tra l’altro che questo signore le aveva detto che l’avrebbe aspettata alla fine della lezione per darle del materiale informativo da mostrare a casa. Essendo l’offerta molto alta per un lavoro di poche ore – sulle 350 mila lire – Federica la scoraggiò un po’, dicendole che le sembrava una cifra esagerata. Un vigile urbano in servizio davanti al Senato fornì all’epoca elementi che confermano questo racconto: si ricordava infatti perfettamente di un uomo e di una ragazza vicini a un’automobile in sosta contromano, quasi sul marciapiede, e riferì che dopo aver pensato di fargli la multa gli si accostò per dirgli di spostarsi. Da quel giorno sono passati 35 anni. E la parola chiave di tutti questi anni è stata “attesa”. Ogni volta che una pista sembrava condurre da qualche parte, l’avvocato ci infondeva speranza ammonendoci di non parlare con nessuno. E in quei periodi non parlavamo neppure con i muri per il timore di lasciarci scappare qualcosa. Tante volte abbiamo pensato di essere sul punto di scoprire la verità. Quella più clamorosa fu forse nel 1993 quando credemmo davvero di riportarla a casa. Al nostro avvocato erano pervenute alcune foto che ritraevano una ragazza vicino a un organo all’interno di un convento di clausura in Lussemburgo. Col senno di poi mi rendo conto che tutta la storia era un po’ assurda: come poteva un fotografo introdursi in un convento di clausura e scattare una foto? Comunque in quell’immagine noi riconoscemmo Emanuela e quindi io, mia madre e mio padre partimmo, convinti di trovarla e di riportarla a casa. Le avevo pure comprato un regalo. Scoprire poi che non era lei ci fece passare in una frazione di secondo dalla speranza alla disperazione: è stato in assoluto il momento più brutto di tutti questi anni.
“Di ipotesi ne sono state avanzate e seguite tantissime. Ho ricevuto e ricevo tuttora in continuazione telefonate di persone che affermano di avere delle informazioni. E io cerco di parlare con tutti, perché altrimenti resterei col dubbio di non aver parlato proprio con la persona che avrebbe potuto determinare una svolta. L’idea che mi sono fatto è che chi ha ideato questo piano aveva qualcosa di molto forte con cui ricattare qualcuno all’interno del Vaticano e che Emanuela, cittadina vaticana, sia servita per alzare il livello di attenzione mediatica in modo da mettere sotto pressione quell’ambiente (e in effetti basta pensare che ci arrivavano lettere di solidarietà da ogni parte del mondo, soprattutto dopo gli appelli del papa per la sua liberazione: me ne ricordo una in particolare da Singapore).
“Non poteva essere Emanuela stessa l’oggetto del ricatto perché non basta una ragazzina di 15 anni per ottenere qualcosa: dall’altra parte si sarebbe tranquillamente potuto pensare che fosse sacrificabile. All’epoca i presunti rapitori riuscirono ad avere una linea diretta con la segreteria di Stato vaticana. Una cosa non scontata: per averla ottenuta io penso che i rapitori avessero già fornito qualche informazione. E tra luglio e settembre di quell’anno ci furono diverse telefonate, all’interno delle quali secondo me si è parlato di quello che era il vero oggetto del ricatto.
“Una delle ipotesi che tenne banco nei primi tempi fu quella dello scambio con l’attentatore di Giovanni Paolo II, Ali Agca: la pista dei Lupi grigi. Un’altra è legata alla contrapposizione tra Wojtyla e Mosca e ai soldi fatti pervenire a Solidarnosc in funzione antisovietica, vale a dire i soldi della mafia che passarono nelle casse dell’Istituto per le opere di religione (lo Ior, la banca vaticana) e dal Banco Ambrosiano e che Wojtyla, pur conoscendone probabilmente la provenienza, utilizzò comunque per la causa polacca. Una questione pesante per l’immagine della Chiesa (ancora di più adesso che Giovanni Paolo II è stato fatto santo). Un’altra ipotesi ancora è che Emanuela sia stata usata per creare un’arma di ricatto, che sia stata messa in certe situazioni che coinvolgevano magari rappresentanti importanti di certe istituzioni per creare una prova da usare in seguito. Una prova che avrebbe costituito un potere di ricatto non indifferente, che peraltro non sarebbe venuto meno nemmeno nel caso quelle persone fossero morte, perché avevano pur sempre rappresentato quelle istituzioni, le quali anche a distanza sarebbero state investite dallo scandalo.
“C’è poi la tesi di Sabrina Minardi, nei primi anni Ottanta compagna del boss Enrico De Pedis, detto Renatino, che dichiarò che quest’ultimo le aveva detto che Emanuela era servita per fare pressioni su qualcuno molto in alto. Lei fece il nome dell’arcivescovo Paul Marcinkus, per via dei contatti che De Pedis aveva con lui, ma secondo me la questione non può esaurirsi con lui. L’entrata in scena di Sabrina Minardi rappresenta uno spartiacque perché riaccese i riflettori su questa vicenda, che cominciava a essere un po’ dimenticata. In occasione dei 25 anni dalla scomparsa, nel 2008, avevamo affisso di nuovo per le strade i manifesti stampati allora per Emanuela e Mirella Gregori (la quindicenne scomparsa appena un mese e mezzo prima di mia sorella). Alle cinque di mattina del giorno seguente ricevetti una telefonata che mi avvertiva che dalla procura erano uscite le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti da Sabrina Minardi. Erano su tutti i giornali. Fu un brutto colpo. Il magistrato che seguiva il caso, Giancarlo Capaldo, mi disse chiaramente che l’indagine era stata compromessa perché tutti i soggetti da lei chiamati in causa erano venuti a conoscenza delle accuse da lei mosse. In quel momento pensai che questa uscita di Minardi fosse un modo per chiudere la questione: lei scaricava le responsabilità su De Pedis e Marcinkus– tutti e due morti – e diceva che il corpo di Emanuela era stato gettato in una betoniera. Fine della storia. Marcinkus l’ho conosciuto e penso che, sì, fosse in relazione con certi ambienti della criminalità, della massoneria, però, a livello di strategie finanziarie, chi era veramente forte nello Ior non era lui ma Luigi Mennini (che ho sempre considerato una brava persona e completamente estraneo alla vicenda di mia sorella). Era lui la vera mente finanziaria, forse l’unico vero banchiere che lo Ior abbia avuto.
Tutto questo lo dico con cognizione di causa perché allo Ior ci ho lavorato quasi trent’anni. Mi ci piazzò Wojtyla. Nel giorno di Natale del 1983, sei mesi dopo la scomparsa di Emanuela, il papa venne a trovarci a casa. In quell’occasione ci disse una frase che ricorderò sempre: “Esiste il terrorismo nazionale e quello internazionale e quello di Emanuela purtroppo è un caso di terrorismo internazionale. Io sto facendo quanto è umanamente possibile”. La sua visita e le sue parole ci colpirono molto: per noi che vivevamo in quell’ambiente il papa era il papa… E fu allora che, a mò di battuta, mi chiese se volevo andare a fare il banchiere dal papa. Mio padre fu molto contento di quella proposta perché era piuttosto preoccupato per me, che in quel periodo non stavo affatto bene. E così sei-sette mesi più tardi entrai allo Ior. Marcinkus era fortemente contrario e seppi che lo era proprio perché temeva che qualcuno potesse legare quella assunzione al caso di Emanuela, anche se allora non si parlava ancora della pista dei soldi (600 milioni di euro, ndr).
Comunque rimando indietro il segretario personale del papa, Stanislaw Dziwisz, dicendogli che non era il caso. Ma Wojtyla insistette. E allora Marcinkus tentò in tutti i modi di convincermi a rinunciare, mi disse di scegliere una qualsiasi altra banca in un qualunque altro posto del mondo, anche perché li carriera non l’avrei mai fatta. Certo col senno di poi mi fa specie che tra tanti posti abbiano voluto mettermi proprio allo Ior…”.
Ps – E intanto, Papa Francesco riveli il codice 158 se non vuole essere accusato di rimanere il Gattopardo del Vaticano (vedi “Potere Vaticano – La finta rivoluzione di Papa Bergoglio). Un suggerimento a Pietro Orlandi: chieda un appuntamento con Zbgnew Brzezinsky, il polacco. Lui sa tutto. E se necessario, sia estremamente persuasivo.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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