Un’interpretazione di cosa potrà diventare l’Unione Europea
Un fantasma si profila all’orizzonte dell’Unione Europea: l’impossibilità di una vera riforma interna e il rischio in prospettiva di una crisi sistemica. Soltanto l’irriducibile Vladimir Bukovskij, in un saggio sulfureo di dodici anni fa (EURSS, Spirali, 2007) aveva osato paragonare l’Unione di Bruxelles a quella sovietica, pronosticando un graduale soffocamento dell’economia a base di “regolamenti, burocrazie e tasse insostenibili”. Ma allora la sua voce dissidente era sembrata animata soltanto dal desiderio di rivincita dopo le sofferenze patite nei lager bolscevichi. Oggi, invece, molti elementi concreti inducono a sospettare il peggiore esito possibile per chi conosca gli scacchi: lo stallo per ripetizione di mosse.
Ci sono, a testimoniarlo, non solo il modestissimo e fumoso discorso della neo eletta presidente di Commissione, Ursula von der Leyen, e la risicata, eterogenea maggioranza trasversale che il Parlamento europeo le ha attribuito. E nemmeno appare decisivo il vistoso sigillo franco-tedesco apposto sul suo nome. Ciò che pesa è la nitida sensazione di una sordità non solo politica, ma anche culturale della futura Commissione da lei auspicata, alle istanze popolari dal basso, tra loro spesso divergenti ma simili nel chiedere meno burocrazia centrale, meno sprechi nel bilancio e negli investimenti, meno dirigismi e formule ideologiche politicamente corrette. Tutto il contrario di ciò che si sono sentiti annunciare i parlamentari di Strasburgo e, indirettamente, i cittadini europei a 27 o 28. La von der Leyen, impersonando già nella biografia e nel tratto personale l’euroburocrazia di Bruxelles, ha puntato sul femminismo istituzionale (parità sessuale delle cariche senza riferimento ai meriti) e sulla lotta al presunto riscaldamento globale (con un diluvio di quote e percentuali da raggiungere, un piano trentennale da tradurre in legge (e qui siamo davvero all’album di famiglia sovietico), nonché l’annuncio di una … “Banca per il clima”. Ha appoggiato, nel solco del dirigismo che più statalista non si può, una estensione dei “fondi di coesione” (ribattezzati come “transizione equa per tutti”) e l’introduzione di un salario minimo in stile grillino (con tanti saluti alla libera contrattazione di mercato). Il tutto corroborato da tasse (carbone, tecnologia) e l’auspicio di una politica estera a maggioranza qualificata (cioè a trazione franco-tedesca, rispettivamente in campo politico ed economico). Più un contentino al parlamento europeo (maggiore “diritto di iniziativa”), un vago appoggio alle future “liste transazionali” e riferimenti generici alla flessibilità nell’ambito del Patto di stabilità, al controllo dell’immigrazione irregolare e al trattato di Dublino, nonché al mercato dei capitali. E quel che non ha detto la von der Leyen è sfuggito di bocca al neo presidente dem del parlamento, David Sassoli, con una agghiacciante metafora calcistica a proposito di una futura serie A” in cui giocherebbero gli europeisti doc, mentre gi altri sarebbero destinati “a non toccare palla”.
Sono premesse di una impostazione neo centralista dell’Unione che immagina di rispondere con fughe in avanti e regole più rigide alla disaffezione e alle spinte centrifughe sempre più evidenti. Le quali, in mancanza di riferimenti credibili, rischiano di avvitarsi e deflagrare. O, quel che peggio, imporre lo stallo per ripetizione di mosse, di cui l”ultimo inconcludente vertice dei ministri dell’interno a Helsinki è già un segnale.
di Dario Fertilio
(da “Italia Oggi”)