“Anche se è imprevedibile, la realtà esiste. Potrà anche essere difficile accettarlo, ma è inutile o
addirittura pericoloso negarlo…”
George Soros
Un fatto è certo: l’Italia non è provincialmente compatibile con il concetto di Società Aperta che George Soros ha diffuso nell’Est Europa e pratica anche negli Stati Uniti.
Un altro fatto è certo: nel nostro Paese non esiste l’Establishment anche se è in crisi in tutto l’Occidente, e la nostra classe dirigente mai così in crisi – temo – dall’annus horribilis 1922 respinge tout court il deficit spending che è la priorità assoluta del discorso politico in quanto bisogna adeguarsi allo Zeitgeist.
Perché questo accade?
Perché il nostro è un paese arretrato che non ha nel 2023 il senso delle èlite, mentre in Francia l’uomo di genio (un enfant prodige prestato alla politica, come ha detto Carlo De Benedetti) Emmanuel Macron ha istituito “France Travail” e il salario minimo legale inaugurando lo “Stato misto pubblico-privato” che è la cifra del rooseveltismo francese; il leader della sinistra radicale Jean Luc Melenchon, che non ha lo sguardo cosmopolita della finanza socialmente redistributiva della ricchezza che ne ha Macron, sta contrastando il New Deal francese anche se per fortuna l’anomalia melenchoniana verrà assorbita dalla capacità da parte dell’Establishment di far interagire mercati e giustizia sociale che sono due facce della stessa medaglia: il business aiuta il Welfare State, e il caso del licenziamento benigno dei dipendenti della Apple da parte dell’ipercalvinista Steve Jobs analogo alle ristrutturazioni aziendali dell’Asperger ad alto funzionamento Elon Musk (un po’ Gordon Ghekko) – in apparenza scelte antisociali che gli italiani sembrano non comprendere –, consentono in realtà la mobilità sociale. Se sei licenziato, puoi trovare un nuovo lavoro; di contro se in Italia vieni licenziato, la tua vita è finita anche perché – con buona pace dell’ordoliberale Guidoriccio da Fogliano, che come tutti gli ordoliberali separa pregiudizialmente le idee dagli interessi, quando in realtà hanno conseguenze proprio come gli interessi – da noi non si perdona il fallimento, provando addirittura vergogna a parlarne quando invece esso è la “conditio sine qua non” del successo; il risultato è un diritto fallimentare arcaico.
Lo spettacolo attuale del nostro paese è davvero raccapricciante, anche in considerazione dell’amara realtà che – come ha certificato il caso del Superbonus 110% – mancano le “capabilities” invece diffuse di norma nei paesi anglosassoni: ossia la capacità di tradurre in tempo reale le informazioni, che circolano grazie alla diffusione del business.
Società chiuse e società aperte: lo scontro, forse, nonostante la caduta del Muro di Berlino abbia segnato per Francis Fukuyama la fine della Storia, non è mai stato così forte dagli anni Trenta del XX secolo mentre minacciose si intravedono le ombre dell’Hotel Metropol.
Orbene, alla luce dell’appassionata ma attenta lettura da parte di chi scrive della requisitoria pubblicata dagli studiosi Tito Boeri e Roberto Perotti su “la Repubblica” del 27 febbraio 2023, dal titolo alla Milton Friedman “La droga Superbonus. Un’overdose da cui bisogna uscire”, non sono mai state così attuali le parole del mio maestro George Soros nel suo libro “La crisi del capitalismo globale”: “… Sono pochi i teorici dell’economia che riconoscono l’esistenza della riflessività: essi cercano di stabilire le condizioni di equilibrio, mentre la riflessività è fonte di squilibrio.
John Maynard Keynes era acutamente consapevole dell’esistenza di fenomeni riflessivi: paragonava infatti i mercati finanziari a un gioco in cui ciascuno deve indovinare in che modo gli altri indovinano in che modo gli altri indovinano; ma anch’egli, per renderla accettabile a livello accademico, ha presentato la propria teoria in termini di equilibrio.
Uno dei mezzi più utilizzati per evitare la riflessività intrinseca nel fenomeno del credito è di concentrarsi invece sulla massa monetaria circolante. Quest’ultima si può quantificare in modo che la sua misura rispecchi presumibilmente le condizioni del credito; ciò consente di ignorare i fenomeni riflessivi legati all’espansione e alla contrazione del credito stesso.
Ma una massa monetaria stabile non crea un’economia stabile, come ha dimostrato l’esperienza della parità aurea. Gli eccessi possono anche autocorreggersi, ma a che prezzo? Tutto il XIX secolo è stato disseminato di crisi di panico devastanti, seguite da depressioni economiche, e attualmente stiamo rivivendo ancora una volta quell’esperienza.
Negli anni Trenta, Keynes ha screditato il monetarismo, ma dopo la sua morte egli è caduto in disgrazia, perché la ricetta per curare la deflazione aveva fatto emergere tendenze inflazionistiche.
Se Keynes fosse vissuto ancora, probabilmente l’avrebbe modificata. Invece, l’obiettivo prioritario è diventato la creazione e la conservazione della stabilità monetaria da parte di Milton Friedman. Ma la tesi di Friedman ha il difetto di trascurare l’elemento riflessivo insito nell’espansione e nella contrazione del credito…”.
Vai a spiegarlo alla Christine Lagarde…
Oggi, torniamo alla situazione degli anni Trenta nella “liaison dangereuse” tra pandemia e forte accelerazione della decadenza della civiltà occidentale (sullo sfondo del gigantismo cinese della Nuova Via della Seta) che non è stata migliorata dalla caduta del Muro di Berlino dell’89, ed è un fatto che il debito pubblico “vive di vita propria”; se il debito pubblico vive di vita propria, mentre in fase pre-pandemica l’ossessione delle Cancellerie europee si chiamava Fiscal Compact, allora qual è il passo successivo? Il deficit spending, che è interpretabile.
“Che cosa ha detto Keynes?”, domandava Robert Skidelsky nell’Introduzione della sua biografia “Keynes. Speranze tradite” è materia di discusione, in quanto – a modesto avviso di chi scrive – se ha detto tutto e il contrario di tutto, è vero anche che ha scoperto il deficit spending più che inventarlo. Tuttavia esso è un principio genericamente valido, non valido “a fortiori”. La spesa in deficit è valida nel breve termine, ma si corrompe statalisticamente nel lungo termine in cui l’emergenza è riassorbita dalla normalità; secondo me, lo ha capito benissimo Maurizio Gasparri nella sua lucidità analitica al programma di Myrta Merlino. Guidoriccio da Fogliano, “incastrato” dai paralogismi, replica: ma in Italia c’è la spesa alla Pomicino; errore, Pomicino con l’appoggio intellettuale dell’ex braccio destro di Federico Caffè Nino Galloni ha tentato la spesa in disavanzo, ma Carlo Azeglio Ciampi, Helmut Kohl+Guido Carli non lo hanno consentito. Ma come sarebbe andata, nessuno può dirlo. E quindi, se si spende si spende a debito: sia che si tratti di Superbonus edilizia o di sussidiare la retta universitaria (sic!); l’una scelta non esclude l’altra ma interagiscono entrambe nella condizione esogena di debito pubblico “autonomizzatosi” ineditamente, che dunque è spesa in disavanzo dalle magnifiche sorti e progressive. Pazzesco, davvero, perché la realtà esiste e c’è chi la scopre come Cristoforo Colombo, o John Maynard
Keynes: c’è chi osa attraversare il deserto.
Scrivono Boeri e Perotti nel loro intervento su “la Repubblica” da un difetto di prospettiva sbagliata:
“Il Superbonus fu approvato nel luglio del 2020 con i voti dei M5S e del Pd, nel pieno di un’ubriacatura di spesa pubblica che ebbe il suo apice nel Pnrr, varato dal Consiglio europeo nello stesso mese. Il Superbonus e i bonus edilizi sono sin qui costati allo Stato più di 120 miliardi, vale a dire più della metà delle risorse impegnate dal Pnrr.”
Primo errore: è una deduzione ideologica quella di Tito Boeri e Roberto Perotti “nel pieno di un’ubriacatura di spesa pubblica che ebbe il suo apice nel Pnrr”; l’errore politico grosso quanto una casa di Giuseppe Conte, ideologicamente l’“avvocato del popolo”, fu quello di non subordinare e/o accostare l’approvazione del Superbonus al Fondo Salva-Stati; peccato perché l’idea era buona, ma applicata male. E il deficit spending è di fatto subordinato al mercato, non può scollegarsi dallo stesso; tuttavia Draghi, venuto in sostituzione del Professore dei Cinque Stelle, ha inteso subordinare incondizionatamente la spesa pubblica in disavanzo del Pnrr al mercato escludendo “a fortiori” tutto il resto, come il moribondo sistema sanitario nazionale: l’ideologia ha vulnerato l’efficacia dell’azione di governo tanto di Conte quanto di Mr Wolf.
Continuano Boeri e Perotti, sulla falsa riga di Milton e Rose Friedman, vedi “La tirannia dello status quo” del 1984: “Sugli aspetti tecnici del Superbonus sono stati versati fiumi di inchiostro. Qui vogliamo soffermarci sugli aspetti economici. Il dibattito è pieno di luoghi comuni come “se non riparte l’edilizia non riparte l’economia, “l’edilizia è il volano della ripresa”, “l’edilizia è la spina dorsale dell’economia”. Crediamo che prima di spendere decine di miliardi siano necessarie ben più di queste frasi fatte.
Circolano in questi giorni riferimenti a prodigiosi ritorni economici e tributari dagli incentivi all’edilizia, ma delle stime serie devono avere almeno tre caratteristiche: devono dimostrare che c’è un nesso causale tra incentivi e aumento degli investimenti (in altre parole, che è solo grazie al Superbonus che rifaccio il tetto, altrimenti non lo avrei fatto); che questi ritorni economici e tributari sono più alti che se si fosse scelto di sussidiare qualche altro settore; infine (dato che una motivazione del Superbonus era i suoi benefici per l’ambiente) che l’effetto sulle emissioni è maggiore che con altri interventi dello stesso importo. Sfidiamo chiunque a produrre stime attendibili con queste caratteristiche.”
Ah, le false credenze in nome dell’Ideologia quanto ci mettono del loro (ne sapeva qualcosa Immanuel Kant), se arrivano a minare l’imparzialità di un galantuomo come Boeri! “Delle stime serie” fatte dai Patuanelli di turno, dice, “devono dimostrare che c’è un nesso causale tra incentivi e aumento degli investimenti (in altre parole, che è solo grazie al Superbonus che rifaccio il tetto, altrimenti non lo avrei fatto); che questi ritorni economici e tributari sono più alti che se si fosse scelto di sussidiare qualche altro settore; infine (dato che una motivazione del Superbonus era i suoi benefici per l’ambiente) che l’effetto sulle emissioni è maggiore che con altri interventi dello stesso importo…”.
Scusatemi il “repetita iuvant” un po’ da disturbo ossessivo compulsivo. Questa è un’affermazione imperdonabilmente presuntuosa: è come dire che Franklin Delano Roosevelt, influenzato da John Maynard Keynes, doveva dimostrare che nesso causale c’era tra incentivi (che Herbert Hoover non dava a costo di veder la gente morire di fame) e aumento degli investimenti nel “settore corporate” piuttosto che nell’agricoltura! Era indimostrabile tout court; mentre sarebbe più corretto dire che il New Deal non fece in tempo a favorire la ripresa dell’economia in quanto ci ha pensato la Seconda Guerra Mondiale a militarizzare la spesa pubblica, senza poter dimostrare il nesso causale tra incentivi passivi e aumento degli investimenti prima del coinvolgimento bellico.
Rimane una questione insoluta (sic!). Boeri e Perotti, nella semplificazione delle sintesi “tranchant” ad usum dei giornali, ignorano quello che ha scritto George Soros a fondamento della teoria della riflessività, non molto di moda nel nostro Paese il cui provincialismo è grave quanto quello della Grecia: “Pensiero e realtà – Per cominciare, devo rifarmi a un vecchio interrogativo filosofico che sta alla radice di molti altri problemi. Che rapporto passa tra il pensiero e la realtà? Devo ammettere che è un modo di prendere il discorso sul mondo degli affari molto alla lontana, ma non si può fare altrimenti. Fallibilità significa che la nostra comprensione del mondo nel quale viviamo è intrinsecamente imperfetta. Riflessività significa che il nostro pensiero influenza attivamente gli eventi a cui partecipiamo e ai quali pensiamo. Dal momento che esiste sempre una discrepanza tra la realtà e l’idea che ce ne facciamo, il divario tra le due, che io chiamo distorsione introdotta dai partecipanti, è un elemento importante che contribuisce a configurare il corso della storia. Il concetto di società aperta si basa sull’ammissione della nostra fallibilità. Nessuno è in possesso della verità suprema. Quantunque ciò possa sembrare ovvio al lettore ordinario, resta tuttavia un fatto che né i responsabili politici ed economici, né i filosofi, spesso, sono disposti ad ammettere. Il rifiuto di accettare il divario intrinseco tra la realtà e il nostro pensiero ha avuto conseguenze di vasta portata e storicamente assai pericolose…”. Come la bocciatura del Piano Shatalin da parte di Mikhail Gorbaciov o degli aiuti di Stato alla Russia da parte di Mario Sarcinelli, Mario Draghi e William Waldgrave.
Lo ignorano deliberatamente gli ordoliberali poiché portano al “punto di equilibrio” l’osservazione
che il primum movens del comportamento umano sono gli interessi. Ma “le idee hanno conseguenze”, come diceva Friedrich Hayek.
Osserva Boeri: “… L’ossessione per l’edilizia ci pare dovuta a due motivi ben diversi. Primo, la potenza dei costruttori, la capacità delle loro associazioni di influenzare la politica a tutti i livelli.
Secondo, l’idea che lo stato dell’economia si misuri dalle “cose” che produce; e non c’è niente di più visibile e tangibile di una colata di cemento, di una casa e del suo tetto, dei ponteggi, di un cantiere. E’ un’idea ottocentesca dell’economia, ma con una vitalità che non finisce mai di sorprendere. Eppure più del 70% del prodotto interno lordo italiano consiste nella produzione di servizi, non di cose, e l’edilizia conta per appena il 4% del valore aggiunto generato in Italia.
Per esempio, in Italia ci sono meno laureati che in altri paesi, soprattutto in materie tecnico-scientifiche, mentre non siamo al corrente di una drammatica inferiorità in quanto a uso di cemento. Il “livello di istruzione” però non è una cosa tangibile, che vediamo per strada.”
Il mio è un ragionamento “contro-intuitivo” a cui, però, manca la verità della dimostrazione – “Se il Colosseo fosse in Antartide, sarebbe pieno di pinguini”, per citare una battuta bellissima di Soros, ma Boeri pur di avversare ideologicamente il deficit spending, arriva a dire: “C’è qualche ministero o ufficio parlamentare o centro di ricerca che prima del voto sul Superbonus abbia cercato di confrontare i benefici di lungo periodo per l’economia nazionale del Superbonus e di una spesa di pari ammontare per sussidiare la retta universitaria e le spese di vitto e alloggio degli studenti meno abbienti?”.
Dov’è l’errore? Superbonus e retta universitaria+spese di vitto e alloggio per i meno abbienti sono pars construens della spesa in deficit, non della (sbagliata) divisione draghiana tra DEBITO PUBBLICO BUONO e DEBITO PUBBLICO CATTIVO.
Ma, è chiaro, il “one track mind” Boeri e Mario Draghi la pensano allo stesso modo.
E infatti, i due studiosi concludono nella loro analisi: “… Certo, si può discutere sui dettagli, su come attuare in pratica la “exit strategy” da questa ubriacatura. Si poteva, ad esempio, agire subito sul livello del sussidio anziché solo sulla cessione dei crediti, evitando di favorire i proprietari di case più ricchi che non hanno problemi di liquidità. Ma di fronte a un provvedimento così insensato (come disse, più pacatamente di noi, lo stesso Draghi) non esistono “exit strategy” indolori. Speriamo solo che serva da lezione per il futuro.”
E che cosa facciamo, lasciamo morire di fame la gente? La razionalizzazione dell’uso dei denari pubblici contro le “deviazioni” alla Ciro Cirillo avvengono in itinere, nel passaggio dalla “società chiusa” alla Società Aperta. Ma devono comunque essere usati! “Nel lungo periodo saremo tutti morti”: John Maynard Keynes.
di Alexander Bush