“I bagliori di San Pietroburgo” un libro che non è una guida e non è un romanzo: è come essere a San Pietroburgo
“Era una notte incantevole, una notte che forse può capitare soltanto quando siamo giovani, mio caro lettore”: e chi non ricorda l’incipit de Le notti bianche di Dostoevskij, sotto il cielo luminoso di San Pietroburgo? Nell’ultima opera dello scrittore olandese Jan Brokken, I bagliori di San Pietroburgo, pubblicata ora in Italia da Iperborea (traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo) c’è tutta la magia di questa città che è lo specchio più di ogni altra del genio russo e la vera capitale culturale del paese.
Quello di Brokken è un affresco affascinante e rapinoso, raccontato con quella fluidità dello scrivere che è una prerogativa di Brokken, sia quando si cimenta in un romanzo, sia quando rievoca in un racconto di viaggio una città indefinibile come San Pietroburgo,“l’infinità di una prospettiva, elevata all’ennesimo grado” perché “dietro Pietroburgo non c’è nulla”.
In realtà è difficile cogliere in Brokken una differenza sostanziale tra romanzo e saggio-reportage.
Si prenda il suo ultimo libro: I bagliori di San Pietroburgo viene pubblicato in Olanda nel 2016, un anno dopo il romanzo Il guardino dei cosacchi (sempre edito da Iperborea) che ripercorre il calvario di Dostoevskij dalla finta fucilazione alla deportazione alla colonia penale di Omsk in Siberia e il periodo di leva militare obbligatoria a Semipalatinsk. Ebbene, I bagliori di San Pietroburgo nasce anche dal lavoro documentale sul posto per la stesura del romanzo. Jan Brokken, che è anche giornalista e di questo mestiere ha distillato il gusto del particolare e la precisione nel riportare le situazioni, pone i luoghi, prima ancora dei personaggi, al rango di protagonisti. La San Pietroburgo che ci presentava oltre la Prospettiva Nevskij, si dispiega nelle case in cui i personaggi reali hanno vissuto, cominciando da Anna Achmatova, forse il nume tutelare del libro, a Šostakovič, e poi via via fino al palazzo della famiglia Nabokov,alle dimore di Puskin e Dostoevskij.
Non sempre il resoconto è di prima mano: alle volte la descrizione degli ambienti è ripresa da chi li ha visitati al tempo del protagonista. Così sono gli appunti di Isaiah Berlin a condurci su per la “ripida scala buia” fino al salotto di Anna Achmatova, all’interno dello splendido palazzo pietroburghese degli Seremet’ev sul fiume Fontanka. E Brokken annota: “se respiro a fondo mi sembra sentire l’odore di sigaretta. Devono avere fumato come ciminiere per ore durante le lunghe conversazioni”. Altrove, sono gli appunti del barone Alexander Von Wrangel nel Giardino dei cosacchi a farci conoscere la casa di Dostoevskij a Semipalatinsk, la “grande stanza con un soffitto così basso che vi regnava una penombra perenne”e dove “tutto era ricoperto di fuliggine e così buio che alla luce delle candele di sego quasi non si riusciva a leggere”.
Il libro di Brokken è un viaggio caleidoscopico in una città che sembra da sola contenere tutta la Russia, senza dimenticare nessuno: ci sono i grandi classici come Puskin, Cechov e Gogol, Dostoevskij Nabokov, artisti come Malevič, grandi compositoricome Ciaikovskij, Rachmaninov, Šostakovič; compare persino Putin, “pietrobughese purosangue cresciuto nel quartiere di Smol’nyi”. Ma un’attenzione particolare, che tradisce forse una predilezione, è quella verso la poetessa Anna Achmatova, rimasta in Russia anche durante la rivoluzione per solidarietà con il suo popolo, come scrive nell’epigrafe della sua raccolta più commossa e dolorosa, Requiem: “No, non sotto un cielo straniero / non al riparo di ali straniere: / io ero allora con il mio popolo, /là, dove per sventura, il mio popolo era”.
Diverse curiosità e aneddoti sui grandi protagonisti della cultura russa affiorano qua e à nel libro. Come il ritratto che fece l’Achmatova di Šostakovič negli anni ’50: “era silenzioso, nervoso e sempre spaventato”, quasi presago sempre di una fine imminente, come lo descrive anche Julian Barnes nel suo L’attesa della fine che apre il racconto, con il compositore che trascorre le notti sul pianerottolo di casa aspettando che la polizia segreta venga a prelevarlo e incarcerarlo. Oppure l’odio inspiegabile di Nabokov verso Dostoevskij, su cui Brokken sorvola per un debito di gratitudine: avergli fatto conoscere “la malinconia nella sua forma più pura”, che è la malinconia di San Pietroburgo e di tutta la Russia, quella del tempo che distrugge e cancella ogni cosa. Perché nessun paese, come sostiene un altro grande scrittore che la conosce bene, il romeno in esilio Norman Manea, ha subito più della Russia il peso della storia e le sue fatali conseguenze.
di Antonio Buozzi