Un Berlusconi giornalista
7 luglio 2019: la paralisi attanaglia chi scrive, un blocco che dura ormai da più di una settimana. Disturbi cronici della concentrazione fanno irruzione violenta nella mia vita, rendendo (complice anche il caldo a 40 gradi) difficile persino la visione coerente di un film che sia su Sky o su Iris Mediaset 22, il canale irrinunciabile nel tramonto della televisione generalista.
Il fatto traumatico che ha scatenato la mia deteriore sindrome depressiva alla voce: “looking good, feeling bad”è il seguente: circa il 27 giugno vado a nuotare in mare sotto lo scoglio di Camogli, e mi ferma il vicino di casa Carlo Ferraris, professione: dipendente di medio livello dell’Eni. La medietà in Italia è scabrosa. O no? Attacca bottone e mi dice con inconfondibile accento meneghino: “Ma tu al… Secolo… ci vai?” alludendo a mie supposte mancanze; fatico a rispondere, mi mancano le parole e –ancorché pieno d’entusiasmo poiché avevo appena finito di scrivere circa 15 pagine sul crollo emotivo di Carlo De Benedetti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi nel 1981 –, rispondo con l’autoimposizione nevrotica della diplomazia suggerita dalle circostanze sfavorevoli: “Scrivo con passione”.
Ma avevo appunto indugiato abbastanza a lungo nella risposta.
“Ma devi guadagnare!”.
Chi scrive questo pezzo – non al massimo della propria forma – si è sentito violentato dentro nell’anima, accusando uno sgradevole “enthusiasm gap”. Con l’angoscia, però, è venuta anche una forte eccitazione erotica conseguente alla scarica della frustrazione… Alle donne, si sa, i frustrati piacciono…
E’ vero: la passione non è sufficiente – ha ragione quel diavolo di Nanni Moretti – ma è una risorsa che cambia la prospettiva della vita. Al mio attivo ci sono più di 120 pubblicazioni con Libertates dal 2014 (non solo con passione).
Vengo al dunque: a seguito dello “stress test” dell’evento inatteso che mi ha provocato un rallentamento delle performances mentali in piena corsa (mi sentivo Napoleone in cima all’Everest), mi propongo una settimana dopo di ricominciare a scrivere. Tentativo fallito.
Domanda:come riuscire a scrivere senza scrivere?
Non è impossibile, senz’altro è difficile… Orbene, riprendo tra le mani un libro di Gianni Barbacetto: “B. Tutte le carte del Presidente” sugli scandali giudiziari di Silvio Berlusconi, a pag. 123 e leggo testualmente quanto segue: “Autorevole commentatore”–“Il 10 aprile 1978 sul Corriere della Sera, il più venduto e autorevole dei quotidiani italiani, compare a pagina 2, sotto la testatina “Osservatorio”, un lungo articolo firmato da Silvio Berlusconi. Titolo: “Un piano per l’industria che darà pochi frutti. Con la nuova legge 675 si rischiano tutti gli inconvenienti del dirigismo”. Quel giorno il palazzinaro milanese diventa, a sorpresa, autorevole commentatore di fatti economici. In un momento delicatissimo per la vita del paese: è in corso il drammatico sequestro di Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse. “Ciò nonostante”, conclude erroneamente Barbacetto, “il direttore del Corriere, Franco Di Bella, trova sul giornale lo spazio per ospitare altri tre lunghi articoli firmati da Berlusconi.
L’ingaggio del nuovo collaboratore apparirà più chiaro tre anni dopo, quando saranno scoperte le liste degli appartenenti alla P2: tra gli affiliati, Berlusconi, il direttore Di Bella, l’editore del Corriere Angelo Rizzoli, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din. La P2 era diventata di fatto padrona del primo giornale italiano, grazie ai soldi del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, altro affiliato alla loggia di Licio Gelli”.
Errore, Barbacetto! “Soltanto le persone corrotte senza essere affascinanti scorgono brutti significati nelle cose belle”, Oscar Wilde dixit, 2) Berlusconi non poteva avere semplicemente voglia di scrivere?, 3) l’articolo pubblicato il 5 giugno 1978 “L’autarchia è un boomerang – Competitività per le imprese italiane” era una lucidissima requisitoria del commentatore in auge quarantaduenne Silvio Berlusconi, che poneva l’accento sul fatto che soltanto dalla vittoria dello spontaneismo sul dirigismo l’Italia poteva risollevarsi dalla grave crisi degli Anni Settanta e non sprofondare nella recessione. Vediamo come, nelle parole del polytropos del genio Silvio già attratto dalla politica:
“L’AUTARCHIA E’ UN BOOMERANG
La crisi che attanaglia l’industria italiana ha due caratteristiche in comune con quella in cui si dibattono altri paesi nostri concorrenti: il basso livello della domanda mondiale e la crescente concorrenza di paesi emergenti avvantaggiati dai bassi costi del lavoro.
Da un lato ciò pone l’esigenza di una riconversione– spontanea o, in assenza di questa, programmata – degli apparati produttivi dei paesi industrialmente avanzati verso produzioni a più alto contenuto di tecnologia e di capitale umano (scientifico, tecnico e manageriale). Dall’altro questi fenomeni hanno il potere quasi magico di evocare uno spettro che è senz’altro il più pericoloso che si aggiri oggi nel mondo: quello del protezionismo. Da che esiste l’industria, imprenditori e sindacati si sono sempre trovati d’accordo nell’invocare barriere di vario tipo alle importazioni: per gli uni queste significavano mercati sicuri e sonni tranquilli, per gli altri – in un’economia caratterizzata come la nostra da abbondanza di lavoro – più elevati livelli del salario reale e dell’occupazione.
Queste tendenze sono, purtroppo, facilmente ravvisabili anche da noi, nonostante le generali professioni di fede libero-scambista.Ed ha davvero ragione Rinaldo Ossola quando scrive che bisogna opporvisi, perché a più lunga scadenza il protezionismo genera solo stagnazione e povertà per tutti. Ma il problema, come spesso accade in Italia, è quello di saper trarre le logiche conseguenze delle enunciazioni di principio, in termini di chiarezza nelle scelte politiche e di rigore nei comportamenti. Siamo sicuri che la classe politica ed i sindacati – anche se sembra paradossale doversi porre una simile domanda a trent’anni dall’apertura verso l’estero della nostra economia – siano pienamente consapevoli delle implicazioni della rinuncia all’autarchia?
L’imperativo categorico che ne discende è quello di essere competitivi, cioè efficienti nell’impegno delle risorse relativamente ai nostri concorrenti. Occorre cioè che le imprese siano luoghi ove si produce ricchezza, e non debiti.
Francamente, se si osserva la performance della nostra economia negli ultimi dieci anni, non possono non sorgere seri dubbi circa la risposta da dare al nostro interrogativo. Da un lato la spaventosa inefficienza del sistema previdenziale e pensionistico (insieme alle ulteriori distorsioni causate dal suo uso clientelare) ha gonfiato a dismisura il deficit del settore pubblico allargato, costringendo le banche ad acquistare quantità ingenti di Bot per finanziarlo e sottraendo così credito prezioso al settore privato.
Dall’altro il prevalere di una pratica politica basata sul populismo e sull’opportunismo trasformistico di quelle che Carli ha recentemente definito “classi dirigenti prive di autorità” ha portato alla quasi unanime accettazione di principi esiziali per qualunque sistema economico di mercato, quale quello della sacralità dell’occupazione, da difendersi ad oltranza, fabbrica per fabbrica, indipendentemente dall’andamento del ciclo e dall’economicità delle imprese.
Ciò ha significato la rimozione dell’azione disciplinatrice del mercato sull’operare d’impresa, consentendo l’affermarsi di politiche di espansione non economicamente giustificate da parte di numerose imprese sia private che pubbliche e la deresponsabilizzazione delle banche nel valutare l’opportunità di concedere il credito. A questo si aggiunga una dinamica salariale decisamente più elevata di quella dei nostri partner commerciali…”: oggi si chiamano no performing loans, crediti non performanti.
“In questo contesto vi è il rischio che la cosiddetta “ristrutturazione finanziaria”, ove fosse considerata sostitutiva dell’apertura di un discorso nuovo sull’imprenditorialità, si inserisca ancora una volta in una logica assistenziale, e quindi protezionistica.
Il vero problema èquello di rimuovere le cause profonde della crisi, ricostruendo per le imprese prospettive fisiologiche di sviluppo in un’economia aperta sui mercati internazionali, che ristabiliscano la convenienza per il risparmio privato ad intervenire come capitale di rischio nelle imprese”.
Berlusconi introdusse nella vulgata giornalistica un termine allora desueto: capital venture.
“A questo proposito mi pare che vi siano alcuni insegnamenti che bisogna trarre da questa crisi circa le dimensioni e le caratteristiche dell’impegno imprenditoriale nel nostro paese. E’ emerso con una certa chiarezza che indagini come quella svolta dalla Federlombarda sulla piccola e media industria in Lombardia che questa, diversamente da taluni giganti dell’industria pubblica, semipubblica o privata, ha mostrato una insospettata capacità di reagire alla crisi, di cogliere le possibilità offerte dal mercato, di introdurre innovazioni tecnologiche, di lanciarsi su nuovi mercati.
Si tratta di una realtà che merita un’attenta considerazione.
Certo non si vuole proporre un’economia miniaturizzata all’insegna dello “small is beautiful” di Schumacher. E’ fuor di dubbio infatti che le economie di scala hanno una loro indiscutibile importanza. Tuttavia i fallimenti riportati da certi fenomeni di gigantismo dovrebbero indurci a meditare sul fatto che spesso vi sono delle “dimensioni ottime” d’impresa che non andrebbero superate… Ma l’insegnamento fondamentale, cui taluni governi laburisti e socialdemocratici europei sono già stati posti di fronte dalla realtà dei fatti concreti, e di cui persino i dirigenti dei paesi dell’Est iniziano a tenere conto, è quello dell’importanza dell’interesse individuale come motore dell’attività economica. Occorre cioè che le dimensioni e le forme organizzative dell’operare d’impresa siano rapportate e commisurate alla considerazione per non dire all’incentivazione di questo aspetto. I managers funzionano bene solo se hanno delle ragioni per porre l’efficienza e la profittabilità dell’impresa all’interno della loro personale “funzione di utilità”.
Ma la riscoperta di questi princìpi ed i comportamenti atti a consentirne la traduzione in pratica e la salvaguardia dipendono innanzitutto dalle forze politiche e sindacali. E’ da loro che è lecito attendersi, se davvero si vuole salvare la nostra economia, un po’ meno di Karl Marx, di cui forse si è fatta indigestione in questi anni, e un po’ più di Adam Smith”.
Silvio Berlusconi,
Corriere della Sera, 5 giugno 1978
Ps – A quando la rivoluzione liberale in Italia? Meglio tardi che mai!
di Alexander Bush