Un referendum non sulla riforma del Senato, ma sull’Italia tutta: ecco il perché di un no
L’ex pie’ veloce Renzi segna il passo e paralizza l’Italia. Le opere pubbliche ristagnano, la deflazione perdura, le banche fanno finanza anziché credito. Così i risparmi si accumulano inerti e l’economia non riparte. In questo quadro sempre più grigio Renzi rinvia di mese in mese il voto che ormai teme. Così dal governo penetra nel corpo del Paese un percolato nauseabondo. In carica dal febbraio 2014 (se 30 mesi vi sembran pochi…), dall’inizio della sua “avventura” il governo ha invischiato il Parlamento imponendogli un’agenda sbagliata: leggi di facciata, propaganda, promesse…, sostanza poca o nulla. Errore strategico o astuzia del giullare che diciannovenne vinse 48.000 euro alla “Ruota della fortuna”? In estrema sintesi, giunto alla segreteria del Partito democratico col piglio del “rottamatore” (8 dicembre 2013), Renzi ha pugnalato alle spalle Enrico Letta (pagina degna di Valentino Borgia), è stato unto presidente del Consiglio da Napolitano Giorgio, ha piazzato a capo del dipartimento affari giuridici e legislativi Antonella Manzione, già capa dei vigili urbani di Pietrasanta e poi di Firenze, e ha sistemato al governo fedelissimi di varia fama e capacità. Ma poi? Sotto tutela di Napolitano (al quale ora attribuisce la sciagurata riforma della Costituzione), sorretto da ex giovani di sfumate speranze (Fabrizio Cicchitto, “massone per caso”, e Pierferdinando Casini, cattolico a modo suis) e supportato da personaggi discussi (Denis Verdini è solo il più vistoso), sull’onda della falsa vittoria alle europee del maggio 2014 (quando ottenne il 22% dei voti potenziali, spacciato come fosse il 41 e più %), Renzi ha esordito con la nuova della legge elettorale. Da quando le elezioni esistono (e non solo in Italia), la loro riforma ha sempre comportato lo scioglimento delle Camere, automaticamente delegittimate, e nuove consultazioni. Invece Renzi ha appeso quella legge al muro, come un fucile carico, da usare al momento per lui buono. A caccia di consensi, ha intrecciato la legge sul lavoro (sventolata come jobs act, in omaggio al Tamigi anziché a Dante) invece di badare all’economia reale (a cominciare dalle banche). A colpi di voti di fiducia, il governo si è incaponito a imporre alle Camere, oltre a una legge sulle unioni civili passata a metà, una sbrodolata riforma della Carta, approvata nottetempo in un’Aula semideserta: un pasticcio inverecondo contrabbandato come superamento del bicameralismo. In realtà proprio l’esistenza di due Camere, ciascuna delle quali può correggere l’altra, fa sì che la produzione legislativa in Italia sia meno peggio di com’è. Il nodo, infatti, non è la “doppia lettura” degli atti, bensì il netto calo qualitativo del ceto parlamentare e della capacità di scrivere le leggi in forma chiara anziché per gli azzeccagarbugli.
Costretto ad affrontare il referendum confermativo (prima strombazzato come generosa elargizione del governo, poi come vittoria dei supporter del “sì”), codesto Renzi dichiarò che, se sconfitto, lascerebbe governo e politica. Venne imitato da Boschi Elena, ministra per le riforme. Ora, con tuffo doppio carpiato, Renzi dice che al referendum non si vota su di lui e i suoi sodali ma “sull’Italia”. Appunto. Perciò va bocciato. Sarebbe esagerato dire che l’esecutivo abbia sbagliato proprio tutto: è tecnicamente e statisticamente impossibile. E’ la sua linea di fondo che non convince e non regge.
Sedicente costituzionalista, ormai inesorabilmente avviata verso quell’età sinodale che attizza la fantasia solo a vecchi panchinari, la ministra Boschi dice addirittura che votare “No” al referendum significa disprezzare il lavoro del Parlamento. Dimentica che le decantate “riforme” della Costituzione sono state approvate a stretta maggioranza da parlamentari disperati, col cappio al collo del combinato disposto crisi di governo-scioglimento delle Camere, consci che la pacchia sta per finire e, tempo pochi mesi, in larga parte dovranno comunque cercarsi un lavoro. Renzi e soci dicono che la nuova Carta abbatte il “costo della politica”. A parte che ciò non è vero, in un Paese veramente democratico questo è proprio l’ultimo dei problemi. Con buona pace di quanti da dieci anni hanno montato la polemica contro “la casta” (una battaglia anzitutto del “CorSera”, antipolitica e antiparlamentare come tante altre capitanate da quel quotidiano nel Novecento), la politica non ha prezzo se davvero serve agli interessi generali e permanenti del Paese (la pace, la sicurezza, il benessere, la tutela dei risparmi, il ritorno a una visione europea dei problemi incombenti …), se decide e controlla le entrate e le spese, se vara le leggi necessarie e impedisce decisioni avventate e stolte, e, anzitutto, se ha il controllo della politica estera e di quella militare. Il costo della rappresentanza politica è dunque poca cosa se interpreta i veri bisogni dell’Italia. I politici che nel secolo scorso buttarono due volte il Paese nella fornace delle guerre mondiali costavano quasi nulla, ma causarono guai inenarrabili. I politici vanno retribuiti, ma debbono essere preparati e responsabili.
Perciò vanno presi in parola Renzi, Boschi, Lotti e il loro codazzo (i tanti Carrai…): al referendum si vota sull’Italia e per l’Italia. E nell’interesse supremo del Paese occorre votare “No”. Il resto viene dopo: una legge elettorale seria col ritorno ai collegi uninominali, nuove votazioni (finalmente!) e, appunto, una Costituente per redigere una Carta di lunga durata, incardinata su una robusta visione dell’Europa dei popoli e varata non a colpi di esigua maggioranza ma con il consenso più ampio possibile delle forze politiche, sociali e culturali.
Perciò bisogna affrettare il referendum: sino a quella data il Paese rimarrà bloccato da polemiche stucchevoli, mentre i rischi diretti e indiretti dell’avventurismo del governo (anche in politica estera e militare) si fanno di giorno in giorno più gravi e i cittadini sentono sempre più laceranti i morsi di una crisi che non molla la presa. Renzi dichiarò che il referendum è un plebiscito sulla sua persona. Ora sa che il “giorno del giudizio” non gli sarà favorevole e cerca di allontanarlo come amaro calice. Spera di comperare consensi con mance. Benché alle corde, gli italiani hanno dignità. Non sono all’asta. Il Paese ha invece fretta di tornare alla normalità: un governo fondato su una maggioranza politica chiara, espressa dai cittadini.
Aldo A. Mola