Una critica al Premio Strega e non solo!
Partiamo dalla serata al Ninfeo di Villa Giulia, ispirata a un tardo veltronismo da magna magna, presenzialismo e scappo via.
Madrina d’eccezione e presentatrice “Conciata” De Gregorio, riapparsa all’improvviso dribblando i debiti della riaperta “Unità”-“Pravda”. Al fianco della bella Carmencita, l’attrice comica Paola Minaccioni e la scrittrice, comica pure lei, Chiara Valerio.
Basta trascrivere le domande e le risposte della serata per avere coscienza dello stato in cui si dibatte la (sotto)cultura italiana. Prima domanda al compagno Francesco Piccolo, vincitore dello scorso anno e scrutatore nel 2015: “La bellezza conta?”. Risposta: “La bellezza è tutto”. Domanda: “Voi scrittori siete dei rimorchioni?” Risposta: “Eh, sì, sì”.
Rimorchioni? Ma dove siamo, alle cene galanti?
Buonanotte. Ci sarebbe già da andarsene via. Ma se uno sta lì, o sta attaccato al video (c’è pure la diretta Rai; dove c’è cultura che sa di Veltroni la Rai c’è), sentirà un profluvio di “Qual è il tuo libro preferito”, “Chi ti piace tra gli scrittori?”. Oppure risposte tipo: “Lo Strega è in una logica di rinnovamento”, “Lo Strega è un brand”, “La cultura è un brand” e persino “Continuiamo a chiederci se Elena Ferrante, la scrittrice sconosciuta, sia un uomo o una donna: e se fosse gay?”. Ergo, secondo Paola Minaccioni, autrice di questa riflessione, gay è un terzo genere. Buonanotte.
Ma se alle parole stiamo a zero, i libri, invece… Ebbene, se passiamo davvero ai libri, diciamo in astratto, se qualcuno davvero li aprisse e si mettesse a leggerli, allora le cose peggiorerebbero di brutto. Altro che Nicola Lagioia di Einaudi primo con 145 punti, Covacich secondo con 89, Elena Ferrante terza con 59 e ultimi a pari de-merito, i due autori meno scalcagnati: Genovesi e Sant’Agata a 37! Uno sprofondo.
Leggere dall’inizio alla fine (da p.1 a p.411 fitte fitte) il noir barese di Nicola Lagioia c’è da aver paura! Perché per entrare nel romanzo bisogna scavallare il titolo (che non c’entra niente), l’immagine di copertina (che non c’entra niente) e le prime settanta pagine dedicate a Clara che si aggira nuda per strada in veste di “magnete e assenza di volontà” (magnete?). La morte di Clara Salvemini, figlia di un’importante famiglia dell’edilizia di Bari, sembra un suicidio, ma forse non lo è… Lagioia, come di lui ha scritto Franco Cordelli sul “Corriere”, rivendica alla letteratura il compito di restituire “dignità a un’Italia politicamente e moralmente devastata”, cioè quella dei Berlusconi e dei Tarantini (baresi pure quelli). Questo, da vent’anni a questa parte -, si sa -, è sufficiente per vedersi assegnato il patentino da scrittore e anche lo Strega. Ma, ahimé, non è sufficiente per essere uno scrittore. Il limite di Lagioia è “di accumulare, di non tagliare, di non rifinire”, scriveva Cordelli. Per non parlare di quando il tasto gli scappa di mano e scrive di “parenti di sangue che non si stancano di interrogarci”: perché, esistono parenti non di sangue? Oppure: “Adesso mi sembra che sta bene” (p.244): stia bene, Lagioia! Oppure descrizioni come “temeva che il sonno della donna arpionasse i suoi segreti”, o ancora “pensava ai suoi amanti, vaghe sponde di un gioco” (p.311). Essere ancora antiberlusconinani e del giro giusto assicura l’Einaudi che ti pubblica, l’appoggio dei giornaloni, l’invito ai festival tipo “Libri come”, dove, oltre a La Gioia c’erano fior di scribani: Roberto Cotroneo, reading di Elena Ferrante (la scrittrice sconosciuta che odia i media e i festival), Andrea Camilleri, Francesco Piccolo, Dacia Maraini, Alessandro Baricco, Walter Siti, Lirio Abbate, Daria Bignardi ecc ecc…
Già, la cosiddetta Elena Ferrante… Raramente è passato un giorno, negli ultimi due anni, in cui l’Ansa non battesse una notizia sulla scrittrice che non vuole dare notizia di sé. Un paio di mesi fa, per esempio, su Facebook, la Ferrante aveva aperto un profilo per dare l’addio alla scrittura: “L’Amica geniale è stato il mio ultimo libro, sento di aver raccontato tutto quello che era possibile raccontare”, aveva scritto. Appena il tempo di leggere che è arrivata la smentita della casa editrice e/o: “La lettera di addio di Elena Ferrante è un fake” hanno scritto Sandro Ferri e Sandra Ozzola marito&moglie di e/o, menti strategiche del caso Ferrante. Qualche giorno prima eravamo stati raggiunti dalla notizia che Elena Ferrante aveva dato per la prima volta “di persona”, un’intervista. Però l’aveva data per interposta persona, ovvero non a un giornalista in carne ed ossa ma ai suoi editori, Sandro Ferri e Sandra Ozzola marito&moglio. E non in Italia, che fa sfigato, ma in America (che differenza c’è se è tutto nascosto?).
Candidata allo Strega da due “autori” notoriamente lontani dai media, la coppia Saviano&Battista (che una cosa in comune ce l’hanno e non diciamo quale), chi sia la Ferrante è talmente noto al punto che l’AdnKronos ha persino lanciato un concorso con il quale si chiedeva ai lettori chi fosse. Sei i candidati in concorso: Linda Ferri; Guido Ceronetti; la coppia Domenico Starnone-Anita Raja; Anita Raja da sola; Goffredo Fofi; Mario Martone. La scelta del popolo di Internet, guarda caso, è caduta su Anita Raja per il 48%; se si aggiunge il 28% ottenuto dalla Raja in coppia col marito Starnone si arriva a un 76%. Compatibile Watson! Anita Raja (1953) come riportato in una nota relativa a un convegno, “trova nella letteratura tedesco-orientale e nella figura intellettuale della Wolf un tramite privilegiato per recuperare il rapporto con la lingua materna (la madre ebrea originaria della Prussia orientale, scontava la sopravvivenza alla shoah con un silenzio pressoché completo sugli anni della propria giovinezza e la scelta di non parlare più il tedesco)”. Il pedigrèe è salvo. E il testo? Beh L’amore molesto della Ferrante non è molto diverso dai fumettoni della Mazzantini. La Storia della bambina perduta idem.
Alla fine, il meno peggio in concorso era forse Santagata con il modestissimo libro su Dante. Per uno nato a Zocca, come Vasco Rossi, una vita spericolata da scrittore è il minimo in cui ci si possa lanciare. Ed infatti spericolatamente lo studioso Marco Santagata, si è lanciato nella letteratura. Figlio di Ciro, insegnante, dc di sinistra che fu capogruppo al Consiglio comunale di Modena e presidente dell’Ente turismo, fratello del parlamentare Pd Giulio che, “dopo un po’ di barricate sessantottine e la laurea in Economia” entrò nel Pci migliorista. Nella cultura italiana si viene sempre da qualche famiglia! Meglio se di sinistra. Santagata è un appassionato nel raccogliere allori, come il suo poeta di riferimento, Dante. Ma finché si è trattato di passare dai saggi accademici alla divulgazione, Santagata ha mostrato abilità. Lo scivolamento avviene quando passa al romanzo, dove si finisce con leggere cose come “Dante era in ansia perché temeva che… invece della fama di saggio gli venisse affibbiata la nomea di stravagante” (p.139). Questo è proprio il rischio in cui Santagata precipita col romanzo Come donna innamorata, un libro dedicato a un Dante forse epilettico alle prese con Beatrice. E l’incontro con Beatrice? E’ Guido Cavalcanti a spingere Dante all’incontro, dopo una breve spiegazione su cosa sia l’amore: “è sofferenza” e “passione che sprofonda all’inferno”. Guido lo accompagna alla porta, gli stringe una mano (tra amici?) e dice: “Vai, Dantino, ti auguro di incontrare presto il tuo angelo” (p.27). Che guarda caso è proprio lì, Bice Portinari “dagli occhi di smeraldo che calamitava l’attenzione dei presenti e li rendeva più gentili, più rispettosi, più affabili”.
Vai Dantino, vai. C’è di peggio.
“La sposa” (Bompiani) di Mauro Covacich – che si picca di arte contemporanea – è fragilissimo. Come disse lo stesso Covacich di se stesso: “I lettori escono sempre disgustati, amareggiati dai miei libri”. Ci credo bene!
Se mi cerchi non ci sono (Manni) di Marina Mizzau, è stato presentato da Umberto Eco e Angelo Guglielmi: la Mizzau, infatti, è un’amica di Eco, fondatrice del Dams e studi alle spalle tipici di quel clima, oscillanti tra Roland Barthes, dialogismo, eteronomia, impegno, femminismo e cose che oggi sembrano dell’altro mondo.
Il genio dell’abbandono (Neri Pozza) di Wanda Marasco, presentato da Francesco Durante e Silvio Perrella è un impasto di lingua e napoletano inventato dalla Marasco, fine a se stesso, una baroccheria.
Meglio non parlare del Paese dei coppoloni di Capossela o del fumetto Dimentica il mio nome di Zerocalcare, presentato da Daria Bignardi e Igiaba Scego: è un cartoon di Michele Rech (1983) un punk pieno di tatuaggi che dice: “Me sò fatto i tatuaggi per sembrà meno sfigato”.
Buonanotte. Queste sono le ultime sulla letteratura italiana.
L’anno prossimo, essendoci una casa editrice unica, la Mondadori, il Premio Strega sarà assegnato direttamente a Segrate. La casa editrice di Berlusconi vorrebbe premiare l’antiberlusconiano Saviano purché scriva un libro (uno qualunque).
Adam Brux