Verdiglione, una condanna al di fuori della legge

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cionti
Ma il reato di associazione a delinquere perché è stato applicato anche in questo caso?· un precedente inquietante

La casa editrice “Spirali”, fondata da Armando Verdiglione, ha pubblicato due miei libri ed altri miei studi, scritti in occasione di convegni cui ho partecipato. Quindi, recentemente, sono restato spiacevolmente sorpreso ed incuriosito dalla notizia della condanna a ben 9 anni di reclusione, inflitta da Tribunale di Milano appunto a Verdiglione. Quale efferato delitto aveva commesso?
Per rispondere a questa domanda mi sono procurata la sentenza che ho letto con attenzione, giungendo alla conclusiva convinzione che Verdiglione, almeno in parte, è stato vittima di un errore giudiziario, per cui gli ho espresso la mia solidarietà. Ma soprattutto, ho letto la sentenza in questione con crescente e definitiva grande apprensione per i  riflessi di carattere generale di una pronuncia che ritengo pericolosissima per il nostro sistema giustizia e per la democrazia in generale.
Dunque Verdiglione è stato condannato in quanto ritenuto colpevole di alcuni reati economici commessi con altri imputati e quale promotore di un’associazione per delinquere. Ebbene, i primi riguardano esclusivamente Verdiglione, l’associazione per delinquere, la sua configurazione e applicazione riguarda tutta la nostra società. Vediamo perché.
Innanzitutto il reato di cui all’art. 416 c.p. si commette “Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni”.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, il bene protetto da questo reato è l’ordine pubblico, che sarebbe minacciato dalla sola esistenza dell’associazione per delinquere: gli associati, infatti, vengono puniti “…per ciò solo…”, cioè per il solo fatto di appartenere all’associazione, indipendentemente dalla commissione o meno dei delitti programmati. Si tratta di una discutibile e discussa eccezione al principio generale di cui all’art. 115 c.p. secondo cui, “Salvo che la legge disponga altrimenti”, non è punibile chi si accorda allo scopo di commettere un reato, quando poi il reato non sia  commesso.
L’accordo intercorso tra più soggetti per realizzare uno o più reati è un elemento comune anche alla fattispecie di concorso di persone nel reato continuato, ma in quest’ultima ipotesi il reato progettato deve essere realizzato, quantomeno nella forma del tentativo, altrimenti i partecipanti all’accordo non sono punibili, appunto  in virtù del menzionato art. 115 c.p. Al contrario, nell’associazione per delinquere  il vincolo associativo che sia idoneo a realizzare una indefinita serie di reati costituisce di per sé un pericolo per l’ordine pubblico, divenendo irrilevante la mancata consumazione dei delitti programmati.
In sintesi, un contestatissimo reato sui generis che prevede una punizione anche…. per non aver commesso alcun reato. Ma in questa sede non intendo metterlo in discussione. Esiste e va accertato e sanzionato. Naturalmente previo accertamento, tanto più rigoroso quanto più eccezionale è la fattispecie che, pertanto, va preliminarmente definita nei suoi elementi costitutivi.
L’associazione per delinquere è un reato di pericolo i cui elementi costitutivi sono: a) un vincolo associativo tendenzialmente permanente; b) l’indeterminatezza del disegno criminoso; c) l’esistenza di una struttura organizzativa, anche minima, ma idonea e adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi. Va da sè che il vincolo associativo deve essere finalizzato alla commissione di reati.
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, costituito dalla consapevolezza di partecipare e contribuire attivamente alla vita dell’associazione, vale a dire della c.d. affectio societatis.
Quindi va verificata la sussistenza di tutti gli elementi del reato con specifico riferimento a ciascun associato ed al suo specifico ruolo. Ma noi non intendiamo occuparci del caso “Verdiglione”, se non per i suoi riflessi di carattere generale. Quindi diamo per scontato che sussistevano sia il vincolo associativo tendenzialmente permanente; sia l’indeterminatezza del disegno criminoso; sia una struttura organizzativa idonea.
Ai nostri fini, interessa soprattutto stabilire la sussistenza e la natura dello scopo del vincolo associativo e della relativa affectio societatis. Visto che la pena è conseguente al solo scopo (indipendentemente dalla effettiva commissione dei reati programmati; o, alternativamente, in aggiunta alla punizione dei reati effettivamente eseguiti; in entrambi i casi a prescindere da qualsiasi reato);  visto che  questo scopo (che si identifica con l’oggetto di qualsiasi tipo di società e come tale) costituisce, un elemento costitutivo necessario dell’associazione che altrimenti non esiste; visto che questo stesso scopo è nel contempo elemento costitutivo necessario del reato in esame; almeno su di esso non possono esservi dubbi. Nel nostro, come in ogni altro caso, l’associazione deve essere, e non può essere altro, che per delinquere.
Allora vediamo che cosa ha accertato il Tribunale nella fattispecie.
“Nella vicenda in esame, il sodalizio criminoso che ha legato con continuità VERDIGLIONE …. [ed altri ]…. dando luogo ad una vera e propria attività imprenditoriale illecita diretta, in definitiva, a procurarsi ingenti ingiusti profitti patrimoniali, è emerso in termini inequivocabili. Né la circostanza che le suddette persone condividessero obiettivi culturali trasversali, portati avanti nell’ambito di una parallela attività associativa del tutto lecita e costituzionalmente tutelata, esclude la sussistenza di un diverso livello di carattere associativo, di natura criminale”.
Dunque la parallela attività con obbiettivi culturali leciti ed anzi costituzionalmente tutelati non c’entrerebbe nulla. L’ attività imprenditoriale illecita degli associati sarebbe stata diretta, in definitiva, a procurarsi ingenti ingiusti profitti patrimoniali. Ma non è così.
Lo stesso Tribunale neppure sospetta vagamente, perché non accenna nemmeno ad una vaga ipotesi, che gli associati volessero procurarsi profitti patrimoniali per sè. Anzi, afferma testualmente:
“Nonostante infatti la maggior parte delle persone coinvolte nella organizzazione di  tutte le attività culturali (tra cui gli altri “associati” e condannati, ndr)  operassero a titolo del tutto gratuito, senza ricevere alcun corrispettivo ed, anzi, versando periodici e a volte consistenti contributi ‘alla causa’ …..e nonostante i frequentatori esterni e i partecipanti agli incontri settimanali a Senago fossero invitati… a effettuare versamenti in denaro per sostenere le attività e le iniziative del movimento cifraematico (sic); dopo avere comprato la dimora storica di Senago, le ambizioni di VERDIGLIONE e del suo più ristretto entourage si sono rivelate tali da esigere il reperimento di ben più imponenti risorse finanziarie”.
Dopo di che lo scopo dell’associazione de qua non potrebbe che rinvenirsi in un hobby, del tutto disinteressato, una specie di gioco che si auto giustifica. Ma non è neppure così.
Il Tribunale è chiarissimo in proposito:

“Da un lato, la condivisione di un progetto globale di natura culturale, funzionale al cosiddetto ‘Secondo Rinascimento, e alla diffusione di un messaggio teorico antiideologico, con la conseguente: organizzazione di mostre di opere d’arte, convegni, conferenze, attività di brainworking, scambi fra intellettuali a livello internazionale, pubblicazione di libri e opere di autori anche stranieri; richiamo di artisti, poeti, psicologi, studiosi da diverse parti del mondo; valorizzazione, attraverso il restauro, delle dimore storiche di Senago (Villa San Carlo Borromeo) e di Medolago (Villa Rasini); attività in effetti documentata, testimoniata da chi vi ha partecipato direttamente (vedi deposizione di Anbrosino, Maiocchi, Keiler, Halter, Fontanabella, Cavicchi, Spadafora, Ponzio, Peters, D’Addario), e mai messa in discussione o negata neppure dalla Pubblica Accusa.
Dall’altro, e in parallelo, la ossessionante ricerca di risorse finanziarie imponenti, reperite tuttavia in modo illecito e fraudolento, anche attraverso la preordinata costruzione o comunque sfruttamento di una galassia di società e associazioni — di diritto italiano e straniero ecc.”.
Laddove la ossessionante ricerca di risorse finanziarie imponenti era funzionale all’attuazione del progetto di natura culturale. Sul punto non vi sono dubbi. Come si è appena sopra riportato, il Tribunale ha affermato che “dopo avere comprato la dimora storica di Senago, le ambizioni di VERDIGLIONE e del suo più ristretto entourage si sono rivelate tali da esigere il reperimento di ben più imponenti risorse finanziarie”, proseguendo immediatamente dopo:
“Da qui il secondo livello associativo, illecito, e la strutturazione di meccanismi capaci di funzionare in modo sistematico e costante, in qualche misura, di autoalimentarsi, garantendo un cospicuo e costante flusso finanziario, ecc.”.
E’ certo. L’associazione “illecita” era finalizzata a garantire un cospicuo e costante flusso finanziario al progetto culturale. Vale a dire che i reati non erano lo scopo, l’oggetto dell’associazione “illecita”, ma il mezzo per conseguire lo scopo culturale.
Il Tribunale lo ribadisce a proposito del ruolo di Verdiglione:
“…l’occasione della ideazione del programma criminoso è riconducibile al suo progetto globale di attuare un secondo rinascimento, obiettivo per il quale ha illecitamente e fraudolentemente drenato risorse finanziarie pubbliche o di terzi”.
Quindi vengono a mancare due elementi essenziali  per la configurazione del reato di associazione per delinquere: l’oggetto dell’associazione che è, e può essere soltanto, lo scopo di commettere più delitti, perché è solo in base a questo scopo che è prevista la pena; e la relativa affectio societatis che è la volontà di collaborare per commettere i delitti scopo dell’associazione, non certo quello di realizzare uno scopo culturale. Insomma uno scambio tra scopo e mezzi per realizzarlo. E va bene. Un vero e proprio qui pro quo- grossolano anche, se si vuole- ma  può succedere.
Sennonché il Tribunale afferma:
“Ora. Che il motivo personale e intimo degli imputati fosse quello di reperire risorse finanziarie… da devolvere in ultimo alla ‘causa culturale’ è francamente in questa sede del tutto irrilevante”.
Ora. Che nessuno dei tre membri del Collegio giudicante si sia accorto che stava pronunciando  la più puntuale motivazione dell’assoluzione degli imputati dal reato di associazione per delinquere, ha dell’inverosimile. E’ chiaro che “il motivo personale e intimo degli imputati” non è una sorta di meditazione filosofica tutelata dalla privacy, ma è proprio ed appunto l’elemento psicologico del prospettato reato e che, quanto più personale ed intimo è, più vero ed autentico è.
E se questo elemento psicologico è quello di reperire risorse finanziarie da devolvere alla causa culturale (come si è visto, in ogni modo, lecito o illecito), ovviamente non è quello di commettere reati che, invece, è il solo necessario per la configurazione dell’associazione per delinquere. Certo, per la commissione di tutti e ciascuno dei reati finanziari eventualmente commessi il motivo personale è irrilevante, ma questi sono già accertati e puniti, ciascuno per proprio conto e, francamente, non c’entrano nulla. Il punto è che se gli imputati volevano finanziare la loro causa culturale, viene meno il dolo specifico consistente nella volontà di collaborare per commettere reati.
Allora come è stata possibile la condanna per associazione per delinquere?
L’unica ipotesi che riusciamo ad immaginare è che il Giudice, associandosi ad un trend  affermatosi da tempo nella magistratura italiana, sia restato accecato dalla sua ansia di fare “giustizia” a tutti i costi. Ovviamente non la giustizia prevista e voluta dalla legge, che nel caso deve essere apparsa debole, ma quella che individualmente sentiva adeguata alla fattispecie. Ipotesi che sembra avvalorata dalla circostanza che è stata inflitta una pena superiore a quella chiesta dal Pm.
Sennonché l’unica giustificazione possibile del mestiere di giudice- e di giudice impiegato in assoluto- è la legge. Al di fuori della legge vi è solo arbitrio, barbarie e  conseguente rovina della società. Specialmente quando, come nel caso italiano, il giudice è anche illimitatamente irresponsabile, come vado dimostrando e predicando da decenni.

Ferdinando Cionti

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Ferdinando Cionti
Ferdinando Cionti è avvocato a Milano ed è stato professore a contratto di Diritto Industriale per il Management presso l’Università di Stato di Milano Bicocca, facoltà di Economia, dipartimento di Diritto per l’economia. La sua concezione del diritto è sintetizzata nel saggio "Per un ritorno alla certezza del diritto", pubblicato su Libertates. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui "La funzione del marchio" e "Sì Logo" (Giuffrè). Per LibertatesLibri è uscito "Il colpo di Stato", presente nello Store di Libertates. Quale collaboratore dell’ “Avanti”, ha seguito quotidianamente le vicende di Mani Pulite.

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