A trent’anni da Mani Pulite
“Chi non vuol far sapere una cosa, in fondo non deve confidarla neanche a se stesso, perché non
bisogna mai lasciare tracce”
Giulio Andreotti
“Ho un gran mal di testa, oggi, Paolo”
Giulio Andreotti
“Il problema, Andreotti, è che lei ha sempre il mal di testa”
Paolo Cirino Pomicino, neuropsichiatra Il Divo di Paolo Sorrentino
17 febbraio 1992, entra in azione la Mano Invisibile di Adam Smith con l’arresto in flagranza di reato da parte del pool di Mani Pulite di Mario Chiesa, il “mariuolo” a capo dell’Homo Sovieticus del Pio Albergo Trivulzio, la casa di cura per anziani a Milano.
Un fatto eccezionale, reso possibile – tra i venti dello Zeitstil – da quel “cavallo brado” che era Antonio Di Pietro, il Nikita Krusciov della magistratura italiana: parola di Indro Montanelli, che era il confidente dello stesso Di Pietro (ma “Krusciov della magistratura” appartiene a chi scrive).
E’ il trentennale di Mani Pulite simboleggiato dalla stretta di mano tra Gherardo Colombo e Sergio Cusani, e molte riflessioni sono state fatte: restano fondamentali i contributi di Piercamillo Davigo, mente carica di pensiero divergente al massimo livello e grande giurista innamorato di Adam Smith, e di Peter Gomez, ex cronista di razza di mani Pulite, difensore del libero mercato che in Italia non è proprio di moda, già autore della rivista visionaria “Fq Millennium”, che a Non è l’arena di Massimo Giletti ha spiegato perché Giulio Andreotti non fece la fine di Bettino Craxi – visto che era il referente per la Dc della maxi-tangente Enimont –, e di Riccardo Michelucci presso la rivista di storia “Churchill, la bestia nera di Hitler” n. 184 febbraio 2022 di Focus alla voce “Con le mani in pasta”.
Vediamo subito i passaggi essenziali dell’analisi imperdibile dello studioso Michelucci, mentre oggi l’Italia è alle prese con la pandemia e la crisi ucraina che appare grave quanto l’attentato di Sarajevo del 1914 che diede origine alla Prima Guerra Mondiale nella disgregazione entropica della Bella époque dalle “magnifiche sorti e progressive”, e rischia molto più che nel 1992; il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza è stato rovinato dall’“errore di margine” commesso da Mr Wolf: la negazione ideologica del “deficit spending”, con il risultato di fatto di non spendere i 209 miliardi prestati dall’Ue sotto forma di Recovery Fund: come ha scritto Riccardo Michelucci, “Nel 1992, un operaio guadagnava mediamente un milione di lire. Una tazzina di caffè costava 700 lire, un litro di benzina 1.500, un grammo d’oro 13.800. Una tangente: 7 milioni.
Tanto pagò Luca Magni, piccolo imprenditore che aveva partecipato all’appalto per le pulizie lanciato dalla casa di cura Pio Albergo Trivulzio, nota a Milano come “Baggina”.
A incassare, Mario Chiesa, messo al vertice dell’istituto dal Psi, vale a dire dal partito che in quel momento esprimeva l’uomo più potente d’Italia: Bettino Craxi. Quando Magni si rivolse ai carabinieri perché non in grado di pagare la seconda tranche dello stesso importo (il “consueto” 10% dell’appalto di 140 milioni), si scoperchiò una pentola il cui contenuto avrebbe travolto la Prima Repubblica”. Magni non si rivolse certo ai carabinieri per attaccamento al “principio di legalità” ma per stato di necessità; ecco a voi la Mano Invisibile: l’egoismo è il motore più potente del mondo, ed è a mio modesto avviso la rivelazione di Giove.
Continuava Michelucci, denunciando gli accordi di cartello mafiosamente anti-capitalistici che hanno dato origine alla Piovra del “Ministro degli Affari Pubblici” di Cosa Nostra Angelo Siino nella cosiddetta relazione “Mafia Appalti” (di cui al memorandum di 980 pagine del generale Mario Mori): “Quella tangente (di Luca Magni a Mario Chiesa, ndr) era solo la punta di un enorme iceberg che
prese – non a caso – il nome giornalistico di Tangentopoli. Quando sarà tutto chiarito si scoprirà, fra le altre cose, che in una riunione del dicembre 1991 “gli elemosinieri”, come venivano chiamati dalla stampa i segretari amministrativi dei partiti, avevano stabilito le percentuali spettanti a ognuno: 25% alla Dc, 25% al Psi, 25 ai ministri in carica dei partiti minori, 25 al Pci – Pds (non in contanti, ma come commesse per le cooperative). Una sorta di “manuale Cencelli” (la spartizione di incarichi basata su interessi politici anziché sul merito) anche per le tangenti, insomma.
Mario Chiesa sapeva tutto, ma teneva duro. Non parlava. Non disse una sola parola neppure quando il pubblico ministero Antonio Di Pietro gli pizzicò dei soldi in Svizzera, frutto di una tangente di noti marchi di acque minerali. “L’acqua minerale è finita” sibilò Di Pietro al difensore di Mario Chiesa, senza che quello muovesse un muscolo del viso. Poi però Craxi scaricò Chiesa, definendolo tra l’altro “un mariuolo”. E allora fu davvero l’inizio della fine. “Io mariuolo?”: l’urlo dell’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio echeggiò per tutta la Procura…”.
E Craxi fu colpito. Finito male come Benito Mussolini (da Benito a Bettino).
Tangentopoli è una variante della Repubblica di Salò.
Ma quello che oggi sappiamo grazie alle rivelazioni inedite nel febbraio 2020 del pm in pensione Antonio Di Pietro a Susanna Turco per l’Espresso, è a dir poco incredibile: se Raul Gardini non si fosse ucciso, Giulio Andreotti sarebbe stato arrestato come destinatario della maxi-tangente Enimont per la parte della Balena Bianca, nota come “la madre di tutte le tangenti”.
Il Divo aveva una vera e propria passione per i delinquenti che lo spingeva a commettere azioni spericolate di cui non calcolava minimamente le conseguenze ed una lista impressionante di reati, ed è ormai un fatto storicamente accertato nella sua natura “sub-processuale” che il suicidio di Gardini lo salvò dalla galera; quindi questo vuol dire che Andreotti stesso arrivò vicinissimo a fare la fine del “contadino orgoglioso” Raul, risucchiato dall’ingranaggio infernale di Mani Pulite con il “passaggio all’atto” suicidario (la penso esattamente come Davigo sul punto, che fu di una lucidità impressionante nell’intervista di Andrea Purgatori per Atlantide dell’aprile 2021).
Io sono convinto ancor oggi che Gardini – “Io sono la chimica italiana” – fosse un visionario di eccezionale livello umano, spintosi a realizzare quasi come un samurai nel deserto l’impresa solitaria della joint venture tra Eni e Montedison “Enimont” che aveva riscritto i connotati della chimica italiana, ma commise l’errore di non fermarsi: provocato anche dalla sciagurata decisione del giudice Diego Curtò di stroncare la fusione aziendale con una sentenza monstre figlia della corruzione in atti giudiziari – che ordinava il fermo provvisorio delle azioni Enimont – per la quale lo stesso Curtò venne arrestato dalla Procura di Milano e fu reo confesso piangendo in carcere a Brescia.
Lo spiegò molto bene il finanziere calvinista Carlo De Benedetti a Federico Rampini nel libro intervista “Per adesso”: “Greed, la febbre del guadagno, fu il sottoprodotto terrestre ed economico di un’avidità ad altissimo livello, lo stressamento di un sistema per ucciderne un altro. Ora mi rendo conto che non capii che cosa succedeva in quel momento. Ero un ballerino in quel salone di danza, attirato o frastornato dal movimento mondiale, con l’illusione di essere un portatore autonomo di novità… Penso di aver avuto la prontezza e il realismo per uscirne prima di esservi costretto. Raul Gardini non ha capito in tempo, perciò è andato incontro a quella tragica fine. Io in questi anni ho interpretato la parte del ridimensionamento, nonostante che non sia la più congeniale al mio carattere…”.
Chapeau, il vero genio di successo è colui che si ferma anziché autodistruggersi.
Prima di Carlo De Benedetti c’è riuscito Eugenio Cefis, un minuto prima di fare la fine di Roberto Calvi; Cefis e De Benedetti hanno battuto Napoleone Bonaparte, e non è una battuta. E’ proprio così.
La mia tesi è che Andreotti era psicopatico.
Era una persona dalla forma mentis costruita sull’emergenza. Anche Mario Draghi ha una forma mentis dello stesso stampo: funziona bene solo nei momenti di crisi della società italiana e anche della sua stessa esistenza, e a 15 anni perse entrambi i genitori facendo gli effetti speciali tra Guido Carli, la laurea e tutto il resto: fino a Palazzo Chigi – commettendo però un passo falso con l’autorizzazione della Banca d’Italia all’acquisizione di Banca Antonveneta da parte di Mps, che ha un legame con la tragica fine di David Rossi.
Lo psicopatico ha un funzionamento personologico monodirezionale: funziona tout court nella sospensione della normalità, com’era vero anche di Sir Winston Randolph Churchill, un ciclotimico.
La ciclotimia è meno grave del disturbo bipolare ma è uno stato limite, ed è funzionalmente empatica nei momenti di rottura gravi quanto un conflitto mondiale; il problema è che la personalità psicopatica a furia di mettere in atto questo schema come un automatismo in coazione a ripetere – emergenza+effetti speciali – prima o poi sbaglia, e paga caro il prezzo.
Orbene, c’è stato un momento nella carriera di Giulio Andreotti, e stiamo parlando del 1992, in cui i suoi figli potevano essere rapiti dagli uomini di Matteo Messina Denaro a Roma, il quale era ed è un uomo d’onore tra i più pericolosi in circolazione al mondo per la sua particolare ferocia: il “Gobbo” aveva tradito gli impegni presi a casa di Ignazio Salvo agli arresti domiciliari nell’ottobre del 1987, alla presenza di qualcun altro per l’annullamento dell’istruttoria del maxi-processo a Cosa Nostra.
A causa del tradimento di quel pactum sceleris, Salvo Lima e Ignazio Salvo che erano i vicerè di Giulio in Sicilia sono stati ammazzati dai killer di Totò o Curtu, e i figli dell’ex enfant prodige di Alcide De Gasperi dovevano essere sequestrati da un commando agli ordini di Denaro quale “angelo sterminatore” per conto di Riina a Roma. Un po’ come Pablo Escobar in Colombia.
Nella nuova edizione di “Mani Pulite – La vera storia” edito da Paper First del “Fatto Quotidiano” Marco Travaglio, eccellente cronista che però nel 2001 ha commesso, secondo la tesi sostenuta nel mio libro … un grave reato falsificando il contenuto dell’“intervista nascosta” dei due giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo a Paolo Borsellino del 21 maggio 1992 con un falso materiale e ideologico che l’ha consacrato allo star system attraverso il lancio del bestseller “L’odore dei soldi” scritto a quattro mani con Elio Veltri e presentato a Satyricon da Daniele Luttazzi, osserva quanto segue in un passaggio cruciale del libro: “Palermo, muoiono gli eroi – Sabato 23 maggio (1992, ndr) un devastante attentato a Palermo dilania il giudice Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Una carica di oltre 500 chili di esplosivo sventra l’autostrada che unisce l’aeroporto di Punta Raisi alla città, al chilometro 4, nei pressi di Capaci, mentre transitano le tre auto blindate.
Si apre un cratere profondo tre metri e mezzo, il piano stradale è squarciato e sollevato per un centinaio di metri. Dopo la sentenza del maxiprocesso in Cassazione, vissuta da Totò Riina come un tradimento dei vecchi referenti politici (Andreotti e i suoi in primis), il boss dei boss ha stilato una lunga lista di obiettivi da eliminare. Non solo Salvo Lima, ma anche Ignazio Salvo (sarà assassinato in settembre; l’altro cugino, Nino, è morto per conto suo qualche mese prima), e poi un elenco di politici, siciliani e non: Calogero Mannino (Dc), Claudio Martelli e Carlo Vizzini, ministri del Governo Andreotti, Sebastiano Purpura (Dc corrente Lima, assessore regionale al Bilancio) e Salvo Andò (dirigente socialista catanese e futuro ministro della Difesa nel governo Amato) e persino Andreotti in persona. Gli interessati lo sanno in tempo reale, visto che il 16 marzo, quattro giorni dopo il delitto Lima, in una nota riservata del capo della Polizia Vincenzo Parisi che cita una fonte anonima si legge:
Sono state rivolte minacce di morte contro il signor presidente del Consiglio e i ministri Vizzini e Mannino… Per marzo-luglio annunciata campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica (Andreotti, ndr). Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti
“Quattro giorno dopo, in Commissione affari costituzionali del Senato, il ministro dell’Interno Scotti parla di un “piano destabilizzante” contro lo Stato. Poi il progetto di eliminare Andreotti o uno dei suoi figli viene accantonato, a causa delle eccezionali misure di sicurezza che circondano il premier e senatore a vita. Così Riina ordina di eseguire una condanna a morte decisa da tempo: quella contro Falcone, l’uomo-simbolo del “maxi”… L’eco della bomba sconquassa i palazzi della politica, in quel momento impegnata nell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il Parlamento è riunito da giorni in seduta comune per decidere il successore di Francesco Cossiga, che si è dimesso il 25 aprile. Bocciato Forlani dai franchi tiratori della Dc, l’assassinio di Falcone fa tramontare anche la candidatura del premier uscente Andreotti, che proprio l’indomani avrebbe dovuto essere eletto. E invece, inseguito dalle ombre lunghe siciliane (dopo l’uccisione del suo discusso luogotenente Salvo Lima, ora perde anche il prestigioso consulente del suo Governo), decide di farsi da parte…”.
Aggiungo soltanto che Andreotti prima fa delle promesse scriteriate a Totò Riina per la mediazione di Ignazio Salvo, poi lo incastra avvallando la “legislazione d’emergenza” di Claudio Martelli che era il supporter di Giovanni Falcone dall’interno del Dipartimento di Grazia e Giustizia al limite dell’incolumità dei suoi stessi familiari: il Divo era un gambler spericolato. Forse meno razionale di quanto l’immagine del suo personaggio faceva credere: ma la simulazione-dissimulazione è un elemento del genio.
Spiega Peter Gomez, eccellente giornalista investigativo, a Massimo Giletti del programma Non è l’arena alla presenza, tra gli altri, di Claudio Martelli che è persona misteriosa ed estremamente complessa e superiore per tensione etica a Bettino Craxi (sostenne Giovanni Falcone al limite della morte): “Su Andreotti vi posso aiutare io. Allora, Andreotti non viene coinvolto nell’inchiesta perché non ci sono chiamate di correo, ma c’è un momento in cui corre il rischio di finirci in mezzo. Nel momento in cui la Procura di Milano Colombo compreso, fanno una rogatoria allo Ior per vedere dove sono finiti parte di quei soldi della maxi-tangente Enimont.
Quei soldi erano in gran parte pagati con dei titoli di Stato, cioè c’erano dei numeri.
Tant’è vero che ci fu un politico che si trovò per esempio, un politico andreottiano, che aveva dato 50 milioni di questi titoli di Stato a una nota subrette televisiva. Nel momento in cui si fa rogatoria allo Ior, come emerge da un libro bellissimo di Gianluigi Nuzzi (Vaticano Spa, ndr) interviene un signore che si chiamava Bisignani, un signore molto importante, molto legato alle gerarchie cattoliche. Sostanzialmente mandano, e ci sono tutti i documenti ed è scritto tutto nel libro di Nuzzi, delle rogatorie falsificate alla Procura di Milano. Cosa nascondono? Nascondono il conto di una fondazione su cui c’erano oltre 5 miliardi e mezzo di lire in una fondazione utilizzata da Giulio Andreotti per incassare quelli e forse altri soldi. Il Vaticano quindi ha falsificato una rogatoria per far si che Andreotti non finisse sotto inchiesta…”.
Ecco la trascrizione integrale dell’intervista imperdibile della Susanna Turco ad Antonio Di Pietro di fine febbraio 2020 – alle porte della pandemia – che consente ineditamente al lettore di capire cosa è accaduto veramente nell’”annus horribilis” 1992, in cui l’Italia poteva fare la fine della Colombia di Pablo Escobar; ma il Caf (Craxi, Andreotti, Forlani ndr) per fortuna, cedette il passo alla minoranza d’elite di Carlo Azeglio Ciampi (sono le minoranze a salvare il nostro Paese); sul contenuto di questa intervista è stata imperniata la richiesta degli avvocati del collegio difensivo di Mario Mori di acquisirne il documento agli atti del processo d’appello per la trattativa Stato/Mafia, e tra l’altro essa appare “eziologicamente” legata alla pronunzia di assoluzione penale del generale Mori che – come ha ricordato nell’ottobre del 2014 l’avvocato Luca Cianferoni, legale di Totò Riina –, “ha svolto un lavoro pulito” tra le ambiguità del cosiddetto “mondo di mezzo”, aggiunge chi scrive, dalla consegna brevi manu del memorabile “Rapporto Mafia – Appalti”, di 980 pagine a Giovanni Falcone sul quale stava per essere fondato il maxiprocesso 2.0 all’arresto di Totò Riina il 15 gennaio 1993, come exitus dei colloqui investigativi instaurati con l’ex sindaco Vito Ciancimino (a dispetto del teorema della fanatica Procura di Palermo, guidata dai Tescaroli e Di Matteo): Mori è l’erede di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ed affermare che Paolo Borsellino venne ucciso perché si opponeva ai rapporti d’intelligence tra Mori e Ciancimino senior è davvero una forzatura inaccettabile, che fa perdere tempo e soldi del processo penale nella storicizzazione della
Giustizia:
“Vi racconto la vera storia di Mani pulite – La maxitangente Enimont andò anche a Salvo Lima. Per conto della mafia e di Andreotti. Che sarebbe stato arrestato se Raul Gardini non si fosse ucciso. Le rivelazioni dell’ex pm”: “Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti”. D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo – Antonio Di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta giù l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto… Ecco lui, uomo di tanti snodi chiamato a parlare di Craxi, quando apre la porta di casa per prima cosa parla del codice penale. Ti accoglie così: “Scusi, ma il 323, io non l’ho mai contestato? Non mi ricordo di averlo fatto”.
“Prego? Il 323?
“L’abuso d’ufficio adesso va molto di moda. Io l’ho sempre considerato una sconfitta dello Stato. Perché vuol dire che non hai la forza di scavare un po’ meglio. Lo dico perché, a differenza di Piercamillo Davigo, che è sempre stato monolitico sul tema – per lui sei colpevole fino a prova contraria – io ormai… Prendete il Codice: al primo capitolo ci sono i soggetti processuali. Ecco, io ho fatto il poliziotto, il giudice, il pm, il testimone, la parte lesa, la parte civile, l’indagato, l’imputato: mi manca soltanto il “responsabile civile per le ammende” e le ho fatte tutte. Ho messo talmente tanti abiti, ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più, perché dipende dai vestiti che indossi, prima cosa. Secondo: sono sempre convinto che noi del pool di Milano abbiamo creato un effetto positivo, ma anche una conseguenza non voluta: pur nell’entusiasmo generale abbiamo creato tanti dipietrini. Già all’epoca: è stato quello che ha bloccato Mani pulite”.
“A bloccare Mani pulite sono stati i magistrati?
“Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. E’ una storia che va riscritta, prima o poi. La politica non la poteva fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. Mani pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l’unicità dell’inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell’idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti, per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale, il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l’insieme degli elementi del pm che sta là. E allora, nel 1994, ecco gli emulatori: Roma, Napoli, Catania, Foggia, Bari, Venezia, Genova etc. Oltretutto, invece che cercare il reato, ci si è messi a investigare per cercare se c’era un reato… Questo è un lato della faccenda: l’altro sta in quello che è successo a me con la vicenda Filippo Salamone, il dossier Achille, di cui ho parlato nell’aula bunker”.
“A Palermo ha detto anche che Mani pulite si interrompe quando arriva alla connessione appalti-mafia. Partiamo da qui?”
“Parliamoci chiaro. Ho intenzione prima o poi di parlarne, sto portando le mie carte e i miei documenti un po’ qua e un po’ là, nell’indecisione di cosa farci: io e mia figlia le vogliamo bruciare, mio figlio e mia moglie dicono di no. Ma se adesso si pensa di intitolare una strada a una persona esiliata, e si dice che Mani pulite è stata come Piazzale Loreto. Sembra di vedere la storia in modo capovolto, ma ci sarà un modo per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce all’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia (risalente a Serafino Ferruzzi, non a Raul Gardini, ndr). Là nasce. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”.
“A Roma, come direttore penale degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia”.
“E il rapporto dei Ros rimane lì, a Palermo, in mano a Pietro Giammanco, che lo mette in cassaforte. Falcone, appena vede tutto questo, ne parla con altre persone. Ne parla con me, perché io stavo lì, al ministero, e lui nemmeno lo conoscevo. Ero perito elettronico, ero stato alla Difesa, mi occupavo di informatizzazione degli uffici giudiziari. Sono stato chiamato lì perché all’epoca nessuno sapeva come funzionava, e invece scoprono che c’è uno che capisce qualcosa di informatica. Così conosco Falcone, la Del Ponte e vengo a sapere di questa realtà. Falcone aveva l’idea che doveva informatizzare questa cosa, quindi già nasce lì”.
“E l’altra persona a cui ne aveva parlato?
“L’altra era Paolo Borsellino: gli aveva detto di portare avanti quell’inchiesta del Ros. Con Borsellino ci siamo parlati ai funerali di Falcone: nella camera ardente, appoggiati alla colonna. E lui, che nel frattempo evidentemente aveva saputo che Falcone me ne aveva parlato, ripeteva: dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto. Io da parte mia ero partito due o tre anni prima, con Lombardia informatica. Dopo Capaci, Borsellino chiama, si arrabbia come una bestia, si fa dare il fascicolo da Giammanco e si mette a indagare. Chiama Giuseppe De Donno, Borsellino poi viene ammazzato. E io ho sempre sostenuto, ho anche degli elementi, che non è stato ucciso per quel che aveva fatto, ma per quel che doveva ancora fare in quell’inchiesta: non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”.
“Mafia pulita?
“Mani pulite non nasce con Mani pulite, nasce come figlia di Mafia pulita. E il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati loro, a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire”.
“Scusi ma è roba nuova questa?
“Ma no! Ne ho parlato con la procura di Brescia, Milano, ne ho parlato col Copasir, con la procura di Palermo, a Caltanissetta, ma sembra che a nessuno interessi più di tanto, eppure è una storia drammatica”.
“Cioè, lei sta dicendo: la tangente Enimont era andata un pezzo anche a Salvo Lima, come rappresentante di Andreotti e della mafia.
“Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti”.
“Si sarebbero saldate le inchieste, Milano e Palermo”.
“Invece all’improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano: “ti sei dimesso”, possibile che nessuno si chieda perché l’ho fatto?”
“Veramente ce lo chiediamo da 25 anni.
“Sì, ma è da 25 anni che lo racconto alle autorità giudiziarie. Ma a quanto pare a nessuno fa piacere la mia risposta: era una scelta di campo. Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, perché le accuse fatte nei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente: c’era il concreto pericolo di inquinamento delle prove, finchè ero magistrato. Dunque a Brescia avrebbero potuto arrestarmi. Proprio nel mentre, io stavo arrivando alla cupola mafiosa grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta. Insomma Palermo arriva prima di me, nel 1992”.
“E lei quando ci arriva?
“Io l’anno dopo. Con la morte di Falcone e Borsellino cambio strategia: mi dedico solo alle imprese, perché – mi dico – l’unico modo per arrivare a scoprire le malefatte di Tangentopoli e Mafiopoli è non più passare attraverso il reato di corruzione, ma di falso in bilancio. Cerco di arrivarci da quest’altro fronte: e vado avanti come un treno, fino a quando mi trovo di nuovo allo stesso punto, che è Filippo Salamone”.
Chiedo scusa ai lettori per l’ennesima interruzione, ma “il diavolo si nasconde nei dettagli”: la frase pronunciata da Antonio Di Pietro “vado avanti come un treno” è ripetuta dallo stesso attore che interpreta Di Pietro (sic!) nella parte dell’incontro a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Di Pietro della fiction “1994”, che tra l’altro è un capolavoro senza precedenti nella storia del cinema italiano.
“Quando io ri-arrivo lì, scoppia il dossier Achille e tanti altri dossieraggi dello stesso tipo”.
“E lei si dimette
“Vengo a sapere molte cose anche io, perché in tutta questa storia ho una persona che mi sta idealmente vicina: Francesco Cossiga. Fin quando c’è stato lui sono stato rispettato dalle istituzioni”.
“Ma lei pure era un confidente di Cossiga, no?
“Eh sì, non solo di Cossiga se è per questo. Di questa storia sono due le persone con cui interloquivo: uno era Cossiga, l’altro era Montanelli. La può raccontare, se vuole, Vittorio Feltri, che ogni tanto era presente”.
“Sta raccontando Mani pulite e Palermo come un’unica storia.
“Ma è così, una storia unica”.
“Mentre, nella percezione del 1992-93, il pool di Milano si occupava dei partiti, e loro si occupavano della mafia. Lei si occupava di Craxi, loro di Andreotti.
“Tutti dicono che ho fatto Mani pulite per mettere sotto processo la Prima Repubblica. Io invece ho processato una persona sola: Cusani. Gli altri erano indagati per reato connesso. Il vero casino nasce quando io faccio il grande errore di non fidarmi di Gardini. Perché io capisco – lo capivo perché già lo sapevo – che dovevo arrivare a Gardini: con lui avrei chiuso il cerchio”.
“Se Gardini non fosse morto, quello invece che il processo Cusani sarebbe stato il processo Gardini?
“No: sarebbe stato il processo Mafia-appalti. Andreotti compreso”.
“Ma perché non si è fidato di Gardini?
“L’interfaccia tra me e Gardini è un ex procuratore aggiunto di Milano, che era diventato il suo co-difensore. Concordiamo tutto. Cosa Gardini dirà, e il fatto che se ne andrà con le sue gambe, cioè non sarà arrestato. L’accordo è che lui viene alle otto la mattina. Abbiamo la certezza che è all’estero, in Svizzera, quindi per venire da me deve andare a dormire da qualche parte. Per cui io faccio mettere carabinieri, finanza, polizia, a Milano, Roma, Ravenna. Non faccio capire nulla a nessuno. Quello per venire da me deve necessariamente rientrare in Italia: e da allora non mi deve scappare più. Perché anche io lottavo contro il tempo, c’era anche l’ipotesi di farmi fuori – non dimentichiamo. Comunque, a mezzanotte mi chiamano i carabinieri, uno di quelli del capitano Zuliani, e mi dicono: è arrivato a piazza Belgioioso, lo prendiamo? E io: no, mantengo la parola sennò non mi parla più. Poi mi chiedono, e io do, l’ordine formale di non arrestarlo. Se l’avessi arrestato ora sarebbe ancora vivo. Ora non so più quello che avrebbe messo per iscritto davanti a me. Alle otto mi telefona l’avvocato di Gardini, dice “stiamo arrivando”. Lui era già vestito. Da quanto riferisce il maggiordomo, si affaccia e vede i carabinieri. E pensa che io l’ho tradito. A quel punto: bum, è un attimo. Si è ammazzato perché era convinto che lo stavo arrestando”.
“… L’errore è stato commesso a mio avviso a Palermo. Due volte. Il primo errore lo commette l’ex procuratore Giammanco, quando a chiude a chiave in un cassetto del suo ufficio il dossier del Ros del 1991 (ma rimane senza risposta l’interrogativo: perché Roberto Scarpinato ha chiesto di archiviare “Mafia e Appalti”?, ndr). Il secondo lo commetto io, quando mi lascio convincere a trasferire gli atti riguardanti le vicende mafiose a Palermo per competenza territoriale”.
“E come?
“Perché a Palermo, nonostante gli ottimi rapporti con il procuratore Caselli e alcuni sostituti come Ingroia, c’erano altri sostituti nel pool, un altro ambiente, di cui il Ros di De Donno evidentemente si fidava poco. Quindi un bel giorno l’allora capitano mi porta a Regina Coeli, a parlare con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, Giuseppe Li Pera. Il quale mi tira fuori Filippo Salamone. A quel punto, mentre discutiamo su chi deve procedere, arrivano i dossieraggi a Brescia e io sono costretto a dimettermi. In pratica quando il fascicolo riguardante Filippo Salamone arriva a Palermo, egli riesce subito a patteggiare, previa derubricazione della associazione a delinquere a stampo mafioso con quella semplice. Resta il fatto che il mandante dell’azione di dossieraggio nei miei confronti manca”.
“E lei sa chi è?
“Certo. Più esattamente: non lo so, me lo doveva dire Gardini. La cosa più drammatica è che io al Copasir sono stato due giorni interi a spiegare i fatti, hanno fatto la relazione, una nel 1995 e una nel ’96, ma il mio interrogatorio è ancora lì fermo e nessuno prosegue quegli accertamenti che pure si erano impegnati a fare. E io da quel giorno ogni legislatura scrivo, scrivo a ogni capo dello Stato, ho scritto sempre a tutti. Per favore volete continuare? Ed è un peccato, perché tutti hanno visto la Sicilia come una realtà solo mafiosa e Milano come una realtà solo imprenditoriale. Seconda cosa: non è vero che Mani pulite sia partita solo da Milano. C’era già il rapporto del Ros del ’91, quello messo in cassaforte dal procuratore di Palermo Giammanco, dove veniva raccontato quello che io ho scoperto anni dopo”.
“Raccontata così, sembra tutta un’altra storia.
“Ma io ho vissuto tutta un’altra storia rispetto a quella che ho letto sui giornali”.
“E Craxi? Tutta la parabola di Mani pulite vive dell’incontro tra voi due.
“Nell’immaginario collettivo sì, ma nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all’ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti”.
“E invece ha pescato Bettino
“Che era uno dei tanti”
“Vuol togliergli pure il ruolo di protagonista?
“Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall’altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero. Craxi era l’emergente, quello che faceva parte della Milano da bere. Nell’89 dal maxi-processo di Palermo si discute dell’ambiente che gravitava intorno alla Dc. Poi, per l’amore di Dio, la mia persona viene sempre accostata a Craxi: ma le indagini non erano finalizzate a lui come puntiglio personale”.
“Il leader del Psi aveva centralizzato il finanziamento, aveva un canale suo.
“Questo dovete smetterla di dirlo. Il finanziamento passava attraverso Vincenzo Balzamo. Mentre i soldi trovati in Svizzera a nome di Giorgio Tradati, amico d’infanzia di Bettino, non era finanziamento: era corruzione. Craxi faceva come tanti: siccome quello era il sistema, una quota se la tenevano per loro e ci facevano quel che ci dovevano fare, a fini personali. Era un normale politico come tutti gli altri, che ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri. Non è che ha agito diversamente. L’ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è”…”.
Ps – Andreotti uomo colto. Sul fatto.
Dedicato alla memoria di Raul Gardini, che conquistò Idina Ferruzzi con un tuffo in mare e pagò per colpe non sue: precisamente, di Serafino Ferruzzi
di Alexander Bush