Un saggio per Libertates sul significato del 4 novembre
I – UNA VITTORIA DA DIMENTICARE ?
In questi giorni si compiono i cento anni dalla battaglia di Vittorio Veneto,un grande successo dell’esercito italiano e dell’aviazione che allora ne faceva parte, certamente il maggiore di tutta la nostra storia unitaria.
L’esito della battaglia, infatti, fu il collasso completo dell’esercito dell’impero austro-ungarico, cui seguì la resa dello Stato che era il nostro principale avversario nella Prima guerra mondiale e – pochi giorni dopo – anche la richiesta di armistizio da parte dell’impero tedesco e la conseguente fine della guerra.
Oggi si guarda alle vicende delle guerre con uno spirito molto diverso da quello di cento anni fa. Eppure i Paesi che hanno motivo di vantare successi militari non li nascondono certo: chi non conosce a Londra Trafalgar square, il ponte e la stazione di Waterloo, oppure a Parigi il ponte di Austerlitz o la via di Rivoli? A Milano tutti conoscono viale Piave o viale Isonzo, mentre la via dedicata a Vittorio Veneto si trova in unastrada a senso unico, seminascostadai resti dei bastioni spagnoli. La via principale d’accesso al centro della città è invece dedicata a Vittor Pisani, un semisconosciuto ammiraglio veneziano vissuto nel XIV secolo. Pochi sanno che via Veneto di Roma, resa celebre dal cinema e dalle cronache mondane, non è dedicata a una regione italiana come le vie che la intersecano, ma si chiama proprio come la battaglia vittoriosa che terminò la nostra Grande guerra.
Oggi per un italiano di media cultura il nome di Caporetto evoca un risultato catastrofico, un sinonimo di sconfitta irrimediabile. Il nome di Vittorio Veneto invece – per i più – non evoca nulla.
Perché questa specie di rimozione dalla memoria nazionale di un evento che dovrebbe invece essere motivo – se non più ormai di orgoglio – almeno di consapevole memoria,anche in ricordo dei cinque milioni e seicentomila italiani che portarono la divisa grigioverde durante la Grande guerra, dei seicentocinquantamila caduti e del milione e più che riportarono gravi ferite e invalidità?
I motivi di quest’oblio sono fondamentalmente tre. Il primo motivo, che oggi si è attenuato ma non cancellato, sta in una specie di sentimento antinazionale suscitato dal modo in cui si svolsero le vicende della rivoluzione italiana che prende il nome di Risorgimento. In queste prevalse – come è noto – il progetto e la visione dell’élite liberale e monarchica filo sabauda che costruì lo Stato nazionale,senza e in molti casi contro larghe parti dalla nazione stessa.
Per molti, perciò,le sconfitte di Custoza, Lissa, Adua e Caporetto (e in seguitola capitolazione dell’8 settembre 1943) sarebbero la rappresentazione più pertinente di quello che effettivamente l’Italia avrebbe meritato. La smagliante vittoria nella battaglia di Vittorio Veneto rappresenterebbe invece una stonatura per questa narrazione sui vizi dell’Italia. Qui basterà citare per tutta l’enorme produzione letteraria e storiografica sulla sconfitta di Caporetto, il libro di Curzio Malaparte, intitolato appunto: “Viva Caporetto”. Un testo che esprime una percezione molto diffusa nel primo dopoguerra del risentimento verso la “casta” dei liberali e dei monarchici che aveva retto il Paese fino all’avvento di Mussolini.
Il secondo motivo della rimozione del successo nella battaglia di Vittorio Veneto dalla memoria storica nazionale sta nella narrazione successiva alla battaglia, come fu fatta dagli Alleati, dagli sconfitti e soprattutto dal fascismo.
Per gli Alleati, inglesi, americani e soprattutto francesi, il fronte italiano rappresentava uno scacchiere secondario, il cui valore strategico consisteva semplicemente nell’impedire che gli austriaci potessero trasferire le proprie divisioni in aiuto ai tedeschi sul fronte molto più importante per loro, cioè sulla linea occidentale del fronte che correva dal mare del Nord fino alla frontiera svizzera.
La vittoria sulla Germania era stata realizzata sul fronte francese, e solo di questo si sarebbe dovuto tenere conto nelle trattative per la pace. Perciò, la circostanza cheil crollo militare degli austriaci sul fronte italiano avesse perlomeno accelerato la decisione dei tedeschi di chiedere l’armistizio,non doveva essere tenuta in considerazione nel rendiconto finale. In subordine si poteva invece magnificare (non senza ragioni per farlo, come si vedrà) il ruolo degli Alleati stessi nella battaglia conclusiva sul fronte italiano.
Nei Paesi sconfitti vi fu invece per lungo tempo – e con le conseguenze nefaste che ben si conoscono – il tentativo di narrare gli avvenimenti che portarono alla loro resa non come il risultato della sconfitta militare, ma come l’esito del tradimento del fronte interno. In fondo molti tedeschi non potevano accettare l’idea di essere stati sconfitti sul piano militare dai francesi. E neppure molti austriaci potevano rassegnarsi ad avere subito la stessa sorte per mano degli italiani.
In Germania perciò prese voce l’accusarivolta ai socialisti e agli ebrei di avere pugnalato alle spalle l’invitto esercito dell’impero tedesco. Per le élites militari austriache e ungheresi, invece,la responsabilità della sconfitta doveva cercarsi nel tradimento della monarchia perpetrato dalle nazionalità slave ribelli.
In Italia, al contrario, il fascismo si era appropriato della vittoria nella Prima guerra mondiale e della battaglia di Vittorio Veneto, ponendole a fondamento di un mito nazionalista, e anzi facendone persino un proprio elemento identitario.
Per la verità, il fascismo aveva semplicemente percorso la strada tracciata da Vittorio Emanuele Orlando, il liberale presidente del Consiglio della Vittoria che, nel riferire alla Camera dei deputati di quegli eventi il 20 novembre 1918, li aveva definiti: “Una vittoria che pare oscurare tutte le altre registrate dalla Storia”.
Quale che sia stata l’origine del mito, la catastrofe provocata dal regime fascista in Italia comportò una damnatio memoriae che trascinò con sé anche tutto ciò che il fascismo avrebbe contaminato, senza tener conto fatto che tutte le vicende della Prima guerra mondiale riguardavano casomai la storia dell’Italia liberale, e certo non quella del fascismo.
Il terzo motivo, che mi propongo di approfondire, è che Vittorio Veneto fu una battaglia talmente fuori dagli schemi di tutte quelle che l’avevano preceduta, in Italia e sul fronte occidentale, che semplicemente non fu capita. Non da molti fra coloro che vi presero parte e la raccontarono, come ad esempio Prezzolini (ripreso poi da Montanelli nella sua “Storia d’Italia”), e da tanti altri.
Neppure fu compresa persino da alcuni fra coloro che la diressero, come gli stessi Diaz e Badoglio (che nella seconda guerra mondiale dimostrerà di non avere appreso nulla dall’esperienza di Vittorio Veneto), con l’eccezione forse di chi ne fu il vero protagonista, cioè il generale Enrico Caviglia (1862-1945) .
Com’era possibile – ci si chiedeva – che tutte grandile battaglie della Prima guerra mondiale si fossero risolte in sostanziali pareggi, con piccoli spostamenti del fronte pagati con il sangue di centinaia di migliaia di soldati, mentre a Vittorio Veneto l’esito fosse stato la disfatta totale dell’esercito nemico e la resa dell’avversario?
Certo, questo esito vi fu perché a quel punto della guerra la Germania e l’Austria erano ormai allo stremo delle forze. La sconfitta dipese anche da deficienze ed errori del nemico, ma questo fa parte della storia di tutte le battaglie perdute.
Comunque a Vittorio Veneto furono soprattutto i meriti militari degli italiani a decidere l’esito della battaglia,che era rimasto per diversi giorni in bilico, e a determinare alla fine un’indiscutibile vittoria, decisiva per le sorti della guerra, in luogo del sostanziale pareggio di tutte quelle che l’avevano preceduta.
II – GLI ANTEFATTI: 1914-17
L’offensiva tedesca sul fronte occidentale fu fermata nella prima battaglia della Marna (settembre 1914), e con ciò svanì il piano degli stati maggiori tedeschi di vincere la guerra sul fronte occidentale in poche settimane. La guerra si trasformò invece in un gigantesco assedio condotto contro gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) da parte degli Alleati (Francia, Gran Bretagna, Russia). Gli imperi di questi ultimi comprendevano quasi tutto il resto del mondo, ed erano molto più forti sia per il numero degli abitanti, sia per le risorse economiche e industriali.
Anche per i Paesi inizialmente neutrali (USA, Sud America e Cina) non si poteva davvero scegliere. Essi avrebbero potuto proseguire i loro commerci solo con chi deteneva il controllo dei mari, cioè con la Gran Bretagna e i suoi alleati.
Perciò Germania e Austria-Ungheria, pur avendo eserciti fortissimi, avrebbero prima o poi esaurito le loro risorse, e avrebbero dovuto di conseguenza arrendersi.
L’assedio si svolse con il blocco navale e con la guerra delle trincee. Sui fronti terrestri lo schema di conduzione delle ostilità si fondava sostanzialmente sulla predisposizione di tre linee di trincee fortificate, strettamente connesse fra loro, e disposte a intervalli successivi distanti fra loro diversi chilometri.
Nonostante lo sviluppo di armi micidiali per la fanteria (mitragliatrici, fucili a ripetizione, lanciafiamme, bombe a mano) l’arma di gran lunga più efficace durante la Prima guerra fu l’artiglieria. Nelle fasi di attacco le granate dirompenti potevano devastare completamente una linea di trinceramenti. Nelle fasi difensive le granate caricate a “shrapnel” potevano fare una strage nelle fanterie che attaccavano allo scoperto.
Il limite dell’artiglieria era però la scarsa mobilità, soprattutto nei terreni senza strade e sconnessi dal tiro delle stesse artiglierie, e la gittata che per il grosso delle bocche da fuoco non superava gli 8-10 chilometri. Perciò le tre linee di difesa erano disposte a intervalli di diversi chilometri di distanza fra loro, secondo la natura del terreno e delle circostanze, per tenere le seconde e le terze linee al difuori della portata del tiro nemico.
L’attacco nemico poteva facilmente distruggere la prima linea delle trincee con l’artiglieria, e quindi occuparla con la fanteria. Ma l’attacco alla seconda linea avveniva con reparti ormai stanchi, decimati e senza la copertura dell’artiglieria. Era questo il momento in cui la difesa poteva fare intervenire la propria artiglieria e le riserve dalle retrovie,fermando così l’attacco nemico. In ogni caso, se mai fosse riuscito l’attacco alla seconda linea, sulla terza linea l’azione sarebbe stata comunque fermata.
Quasi tutte le battaglie sul fronte occidentale e su quello italiano si svolsero secondo questo schema.
Anche nella tristemente famosa battaglia di Caporetto la prima linea italiana sull’Isonzo fu facilmente travolta dall’offensiva austro-tedesca dell’ottobre 1917 (24 ottobre 1917). In seguito,anche la nostra seconda linea sul fiume Tagliamento cedette. Ma la terza linea sul Piave e sul Monte Grappa resse (con grande valore) all’urto degli attaccanti, che però giunsero alla spicciolata a partire dalla metà del mese successivo, quasi sprovvisti di artiglieria e a corto di rifornimenti.
III – LA GUERRA A UNA SVOLTA: 1917-18
Lo schema del grande assedio e del logoramento degli imperi centrali proseguì con grandi e inconcludenti battaglie fino al 1917: Marna; Verdun; la Somme; oltre a undici battaglie sull’Isonzo e all’offensiva austriaca del 1916 sull’altopiano di Asiago.
L’abbattimento dello zar nel marzo 1917 modificò la situazione di stallo che si era determinata, rendendo evidente il rischio di un’uscita della Russia dalla guerra, il che avrebbe spezzato l’assedio mettendo in discussione l’esito finale della guerra.
Questa minaccia, assieme all’intensificarsi degli attacchi dei sommergibili tedeschi al traffico navale dell’Atlantico, provocò l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati.
Altri segni dell’impossibilità di proseguire ancora per molto con la guerra di logoramento vennero dalla Francia, dove nel mese di aprile quasi la metà dei reggimenti dell’esercito si ammutinò, rifiutando di andare in prima linea per proseguire le insensate offensive frontali disposte dal capo di stato maggiore generale Nivelle. Ad agosto, l’affondamento di alcune navi americane cariche di farina destinata all’Italia provocò una sommossa a Torino. Per reprimerla fu necessario fare intervenire l’esercito e si ebbero decine di morti. Anche in Germania e in Austria-Ungheria le privazioni si facevano sentire, con mancanza di materie prime per l’industria e di cibo per le popolazioni.
La presa del potere dei bolscevichi in Russia nel novembre di quello stesso anno cominciò a fare temere alle classi dirigenti che nessuno dei contendenti avrebbe vinto la guerra, che avrebbe invece potuto portare allo scoppio di rivoluzioni sul modello bolscevico. Bisognava dunque affrettare in ogni modo la conclusione della guerra.
Le offensive tedesche e quella austriaca della primavera del 1918 fallirono. Perciò fu la volta degli Alleati di passare all’offensiva.
Dopo la netta vittoria nella battaglia difensiva “del Solstizio” (giugno 1918), gli italiani si mantennero sulla difensiva progettando di passare all’offensiva solo nella primavera dell’anno successivo.
Mentre il progresso degli Alleati sul fronte francese procedeva molto a rilento, il crollo dell’esercito bulgaro nel settembre di quel 1918 fece precipitare la situazione del fronte dei Balcani, aprendo la possibilità di un’invasione degli Alleati da Sud lungo il Danubio, che avrebbe preso alle spalle la difesa dell’Austria-Ungheria.
Il rischio che la guerra finisse con gli austro-ungarici che ancora occupavano una parte rilevante del territorio italiano avrebbe fortemente indebolito la nostra posizione al tavolo della pace, compromettendo gli obiettivi per cui l’Italia era entrata in guerra.
Perciò, alle pressioni degli Alleati sullo stato maggiore del nostro esercito, si aggiunsero quelle ancora più incalzanti del governo. Orlando, infatti, scrisse al capo di stato maggiore Diaz: “Fra la sconfitta e l’inazione il Governo preferirebbe la sconfitta. Si muova!”.
Queste pressioni indussero i comandi militari italiani a pianificare un’offensiva per la metà di ottobre del 1918. Il piano redatto dal generale Badoglio e dal col. Cavallero prevedeva lo sfondamento dello schieramento nemico sul Piave, con la conquista delle città di Conegliano e Vittorio Veneto, il cui possesso avrebbe chiuso la principale via di rifornimento ed eventualmente di ritirata dell’esercito austro-ungarico.
IV – LE FORZE IN CAMPO
Il primo “miracolo” di Vittorio Veneto fu compiuto dall’industria italiana, grazie ai finanziamenti e alle materie prime fornite dagli alleati. La produzione di armamenti e materiali per l’esercito salì a livelli multipli. La Fiat el’ Ansaldo decuplicarono gli addetti alla produzione rispetto ai livelli prebellici. La sola industria aeronautica vide i propri addetti salire a 100.000 unità. In questo senso si può dire davvero che la vittoria fu, nel complesso, un merito da condividere in pieno con gli alleati.
Dopo avere perso circa un quarto dei propri effettivi durante la ritirata di Caporetto, e gran parte delle artiglierie e delle scorte militari, l’Italia nell’ottobre del 1918 aveva rimesso in campo l’esercito più forte che avesse mai avuto, e che mai più avrà in futuro.
L’esercito schierava cinquantadue divisioni di fanteria e quattro divisioni di cavalleria, cui si aggiungevano tre divisioni britanniche (che ne valevano quattro e mezzo per dotazione di personale e d’artiglieria), due francesi, e un solo reggimento americano, per un totale di più di 1.100.000 uomini di prima linea.
I mezzi comprendevano 10.000 fra canoni e bombarde (mortai) di medio e grosso calibro; 28.000 autocarri; 638 aerei d’attacco e 300.000 quadrupedi: Le munizioni per le artiglierie raggiungevano quasi i sei milioni di pezzi. Numerose gli autoblindo; pochi invece i carri armati, tutti di fabbricazione francese.
I vantaggi di cui godevano gli italiani, oltre al numero degli uomini e dei mezzi, erano costituiti da una grande disponibilità di fanti addestrati alle più moderne tecniche di assalto (i temutissimi “Arditi” erano circa 28.000); la facilità di spostamento delle truppe per linee interne ben servite dalle strade e dalle ferrovie; ottimi ufficiali di artiglieria usciti dalla dura selezione della guerra (fra tutti il generale Roberto Segre); netta superiorità dell’artiglieria e soprattutto dell’aviazione.
Gli austriaci per contro erano reduci dalla disastrosa sconfitta nell’offensiva di quattro mesi prima sul Piave, sul Grappa e sull’altopiano di Asiago, dove avevano perduto quasi centocinquantamila uomini di prima linea e consumato gran parte delle scorte di munizioni e dei materiali.
L’esercito austro-ungarico poteva contare su cinquantasei divisioni, di cui molte sotto organico, fra cui sette molto deboli di cavalleria appiedata, per un totale di 800.000 soldati.
Alcune divisioni della fanteria ungherese (Honved) tenute in riserva erano fortemente demotivate a impegnarsi nella battaglia sul fronte italiano, perché era stato loro promesso il rimpatrio per difendere i confini meridionali dell’Ungheria minacciati dall’attacco alleato che risaliva dai Balcani.
L’artiglieria A.U. aveva pezzi molto validi ma scarsi munizionamenti per reggere una battaglia prolungata. Era inoltre praticamente priva del sostegno dell’aviazione per l’osservazione del tiro e per le azioni di bombardamento.
Gli altri fattori di debolezza erano costituiti dall’impossibilità di trasferire grossi contingenti di truppe fra i vari settori del fronte, in particolare fra il trentino e la pianura veneta; la scarsa alimentazione delle truppe e la mancanza di materiali.
V – IL TEATRO DELLA BATTAGLIA
La battaglia che prende il nome dalla piccola città di Vittorio Veneto fu combattuta in realtà sul Monte Grappa e sul corso medio del Piave, su un fronte di circa trenta chilometri, che va da Pederobba (dove il Piave sbocca dalle Alpinella pianura veneta) fino alla grande isola delle Grave di Papadopoli formata da due bracci del Piave.
Il piano italiano prevedeva un attacco diversivo sul monte Grappa, affidato alla 4a armata del generale Giardino. Lo scopo di quest’attacco era di trattenere le forze austro-ungariche sul Grappa (il gruppo “Belluno” con dodici divisioni più due di riserva) per impedire che esse potessero soccorrere le forze schierate in pianura, contro di cui si sarebbe sferrato l’attacco principale.
L’azione principale dell’offensiva era affidata a tre Armate. La forza principale schierata al centro, con alle spalle il Montello, era la fortissima 8a Armata al comando di Enrico Caviglia, di gran lunga il miglior generale dell’esercito italiano. Essa schierava ben diciannove divisioni (di cui due d’assalto e una di cavalleria).
Sull’ala sinistra di fronte a Vidor/Valdobbiadene vi era la 12a Armata mista italo-francese affidata al generale (di origine corsa) Graziani, con quattro divisioni di cui una francese.
Sull’ala destra, di fronte alle Grave di Papadopoli, l’Armata mista italo-inglese forte di 4/5 divisioni di cui due italiane, affidata al comando del britannico Lord Cavan.
La 3a Armata, con cinque divisioni, affidata al duca d’Aosta era situata sul corso inferiore del Piave. Il suo comito era statico, cioè consisteva semplicemente nel trattenere le forze nemiche che difendevano il basso corso del Piave.
Come riserva generale vi era la 9a Armata con quattro divisioni (una cecoslovacca) e altre tre di cavalleria.
Il piano italiano era di sfondare il centro dello schieramento austro-ungarico, occupando Sernaglia e Susegana sulla riva sinistra del Piave, e quindi proseguire fino alla città di Vittorio Veneto che avrebbe precluso al nemico l’uso della strada “di Alemagna”,indispensabile per i rifornimenti e per l’eventuale ritirata verso il passo di Dobbiaco.
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Il primo errore fatale degli austriaci consistette nello schieramento iniziale delle loro armate. Il grosso delle forze (Gruppo Belluno), con dodici divisioni fra le più forti dell’esercito A.U., era schierato – come si è detto -sul Grappa, considerato la più ovvia direttrice dell’attacco italiano.
L’altra formazione più forte (“Isonzo Armee”), con dodici divisioni, era schierata sul basso Piave, dove si riteneva che la presenza di un membro di Casa Savoia come comandante significasse l’intento di condurre l’attacco principale in quel settore del fronte.
Perciò a fronte di ventotto divisioni dello schieramento centrale italiano vi era la 6a Armata A.U. con soltanto 7 divisioni, più due di riserva. Numerose divisioni erano tenute di riserva, sia per la difesa in profondità, sia perché si faceva poco affidamento sulla loro capacità di combattimento.
Sul fronte centrale dunque la superiorità italiana era netta; maggiore del rapporto 2/1 che si riteneva indispensabile per condurre con successo un’azione offensiva. Questo vale anche per le artiglierie. Nel settore centrale del fronte gli italiani avevano 4.200 cannoni contro 1.000.
Malgrado ciò, il risultato non era scontato, perché il comandante austriaco, feldmaresciallo Boroevic (che i suoi chiamavano “il leone dell’Isonzo”), aveva già dimostrato di saper reggere ad attacchi nemici condotti con forze due volte superiori a quelle a sua disposizione.
VI . LO SVOLGIMENTO DELLA BATTAGLIA (24-29 OTTOBRE)
A causa della piena torrenziale del Piave che impediva il gettamento dei ponti, l’offensiva ebbe inizio il 24 ottobre prima dell’alba solo sul Monte Grappa. Qui i combattimenti durissimi si prolungarono per tre giornicausando più della metà delle nostre perdite (25.000 uomini).
Gli italiani non riuscirono a scalzare gli austro-ungheresi dalle loro posizioni, ma l’obiettivo dell’azione fu comunque raggiunto. Infatti, i comandi austro-ungarici, dopo tre giorni di attacchi italiani ripetuti e violentissimi, si convinsero che la direttrice principale dell’attacco fosse proprio questa, e richiamarono sulla linea del monte Grappa la maggior parte delle riserve che stazionavano nelle valli retrostanti, togliendone la disponibilità per un eventuale soccorso alle forze schierate sul Piave.
Finalmente, nella giornata del 26 ottobre il tempo migliorò, diminuendo la piena del Piave e rendendo possibile la costruzione dei ponti. In origine ne erano previsti dodici, ma la piena del fiume e il fuoco dell’artiglieria austriaca resero possibile completarne soltanto tre, uno per ciascuna delle tre Armate che costituivano la forza di attacco principale.
L’ala sinistra (Graziani) e il centro (Caviglia) riuscirono a fare passare sulla sinistra del Piave circa due divisioni ciascuna durante la notte del 26-27 ottobre. Poi la violenta reazione dell’artiglieria nemica che sparava dai rilievi posti alla sinistra del Piave riuscì a distruggere i ponti e a impedire che se ne lanciassero altri.
La sera del 27 le unità degli Alleati erano isolate: una situazione molto pericolosa, che ricordava l’ offensiva fallita in precedenza sullo stesso Piave dagli austriaci.
Molto migliore era più a sud la situazione dell’Armata italo-britannica di Lord Cavan. Tutte le sue divisioni avevano passato il Piave alle Grave di Papadopoli e procedevano senza incontrare una resistenza insuperabile.
Le ragioni del successo dell’armata di Lord Cavan erano state due. La prima fu che il punto colpito rappresentava la congiunzione delle due armate austriache schierate sul Piave, la 6a e la “Isonzo Armee”, il che rendeva più debole la resistenza opposta all’attacco. La seconda fu che in quel tratto la riva del Piave occupata dagli austriaciè completamente piatta, e tutti i campanili erano stati spianati dal tiro dell’artiglieria italiana. Ciò rendeva impossibile l’osservazione e la correzione del tiro per gli artiglieri austriaci, che perciò sparavano alla cieca non riuscendo a colpire il ponte costruito dagli anglo-italiani.
Vista la situazione, il gen. Caviglia decise di compiere una mossa geniale che si rivelerà decisiva. Caviglia diede ordine, infatti al suo XVIIIo Corpo d’Armata (Gen. Basso) di passare il Piave nella notte fra il 27 e il 28 alle Grave di Papadopoli, e di attaccare le linee austriache risalendo la riva sinistra del Piave fino a raggiungere la testa di ponte della 8a Armata.
Fare cambiare posizione e linea di attacco a una grande unità è una manovra che sarebbe stata facile ai tempi delle guerre napoleoniche, ma che già nella Prima guerra mondiale era rischiosissima, perché può risolversi in un gigantesco ingorgo delle masse e delle logistiche in movimento.
Riuscendo l’operazione, però, si sarebbe potuto prendere d’infilata le trincee nemiche che non possono quasi difendersi da un attacco condotto lateralmente.
L’attacco riuscì in pieno, con le brigate Sassari, Bisagno e Como, che raggiunsero rapidamente le linee da cui sparavano le artiglierie nemiche sulla testa di ponte dell’ 8a Armata.
Queste furono messe a tacere entro le ore 16 del 28 ottobre. Ora l’intera 8a
Armata poteva passare il Piave con la forza delle sue quindici restanti divisioni.
La situazione della 6a Armata austriaca di Boroevic è ormai disperata, non avendo divisioni di riserva, anche a causa di ammutinamenti fra le truppe ungheresi e croate. In ogni caso, anche se le truppe che rifiutarono di andare in prima liea fossero state disponibili, la situazione sarebbe cambiata ben poco, semplicemente perché le forze austriache di quel settore non avrebbero in nessun caso potuto fermare l’urto di un’armata delle dimensioni di quella guidata da Caviglia.
Fu così che i comandi austriaci ordinarono la ritirata, per ripiegare in teoria sulla linea successiva del fiume Livenza.
VII – FINE DELLA BATTAGLIA E DELLA GUERRA (30 OTT. – 4 NOV. 1918)
Fin qui la battaglia si era svolta come una replica di quella di Caporetto a parti rovesciate (e così ne scrisse Caviglia a sua moglie la sera del 28 ottobre).
Da qui in avanti le fasi della battaglia anticipano invece quello che accadrà nella seconda guerra mondiale alle armate franco-inglesi in Francia nella rotta di Dunkerque. E, più in generale, la vicenda di Vittorio Veneto anticipa lo svolgimento delle grandi battaglie di movimento della Seconda guerra mondiale.
La ritirata austriaca si trasforma in una rotta perché le formazioni italiane sono molto più veloci di quelle austro-ungariche in ritirata, e per l’effetto dell’azione massiccia dell’aviazione.
Infatti gli attacchi dell’aviazione alla fanteria sono poco efficaci quando i soldati sono protetti dalle trincee. Ma, non appena il nemico esce dalle trincee per ritirarsi, l’azione di attacco ravvicinato al suolo dell’aviazione alle colonne che vi formano sulle strade delle retrovie assume un effettodevastante per la mancanza di difese e per l’effetto del panico.
Nel caso degli austriaci, la loro Dunkerque, cioè il luogo dove concentrarsi e poi ritirarsi, sarebbe stato la cittadina di Vittorio Veneto, all’imbocco della strada di Alemagna che corre attraverso le Dolomiti.
Ma le forze mobili italiane (cavalleria, autoblindo e bersaglieri) arrivarono a Vittorio Veneto per prime, nelle prime ore del 30 ottobre, aprendosi la strada combattendo per una distanza di circa trenta chilometri in poco più di ventiquattro ore. Un’impresa considerata quasi impossibile nel corso della Prima guerra mondiale.
L’armata austro-ungarica era in trappola. Le altre vie di fuga attraverso il Brennero e il Tagliamento sarebbero ben presto state chiuse dall’avanzata italiana nei fondovalli.
In tutte le unità dell’esercito austro-ungarico, anche in quelle che avevano fin qui combattuto molto valorosamente, si diffuse lo scoraggiamento e il panico. Anche il Grappa e il fronte trentino erano minacciati di aggiramento.
Nessuno sembrava ormai più disposto a morire o a finire prigioniero per una guerra ormai perduta. I comandi austriaci cercarono di guadagnare tempo avviando le trattative per un armistizio, che alla fine fu soltanto una resa.
La notizia della richiesta di armistizio fu risaputa e accelerò lo sfacelo dell’esercito avversario. Gli italiani al contrario non avevano fretta di finire. Volevano, infatti, che gli austriaci accettassero tutte le condizioni poste dagli Alleati, che rappresentavano una vera e propria resa: il ritiro di quel che restava delle loro forze armate di là dalla linea divisoria delle Alpi; la restituzione dei prigionieri italiani senza reciprocità; il libero transito delle armate alleate sul territorio austriaco per continuare le operazioni di guerra alla Germania.
La battaglia si protrasse fino alle ore 15 del 4 novembre. Ma nella sua parte finale fu quasi soltanto una gigantesca operazione di rastrellamento che portò alla cattura di 450.000 soldati, 7.000 cannoni, interi stati maggiori e in pratica tutto l’equipaggiamento di: “quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo”, e che ormai non esisteva praticamente più.
Fu soprattutto quest’ultima fase caotica e disperata della ritirata austriaca a colpire alcuni osservatori, che parlarono di “battaglia ideale in cui era mancato l’avversario”. Dimenticando così le durissime e incerte fasi della battaglia come si era svolta durante la settimana dal 24 al 30 ottobre.
Dopo la firma dell’armistizio, la sera del 3 novembre, il Capo di Stato Maggiore Diaz comunicò a Vittorio Emanuele III che l’esercito italiano era ormai pronto ad attaccare la Germania attraverso i territori dell’Austria, come previsto dalle clausole della resa austriaca.
Questa prospettiva, assieme al timore dello scoppio di una rivoluzione interna come quella russa, indusse i tedeschi a chiedere a loro volta l’armistizio, che fu firmato a Compiègne l’11 novembre 1918.
La guerra era finita. Il bellissimo “Bollettino della Vittoria” firmato da Diaz esaltava giustamente il successo italiano e alleato nell’ultima gigantesca battaglia.
Comprensibilmente non si faceva cenno a ciò che questa grande vittoria era costata: seicentocinquantamila morti; un milione di feriti e invalidi, molti dei quali saranno poi vittime dell’epidemia d’influenza che seguì. Un’intera generazione sarà per sempre segnata dalle ferite materiali e morali della guerra.
VIII – CONCLUSIONI
Un bilancio della Grande guerra non si può certo fare con il metro dei valori di oggi. Quello che invece si può dire è che, una volta presa la decisione di entrare in guerra nel maggio 1915 – giusta o sbagliata che fosse quella decisione – quel che si è qui ricordato sarebbe stato certamente il migliore modo di concluderla.
di Carlo Scognamiglio Pasini
Professore emerito nell’Università LUISS-Guido Carli. Già Presidente del Senato e Ministro della Difesa della Repubblica italiana