Per la Voluntary disclosure 2, almeno nella prima versione, il contante è sinonimo di evasione, ma ne siamo proprio sicuri?
Dopo lunghe trattative, ripensamenti e compromessi è nata la voluntary disclosure 2. Copia della prima. Ma con uno scopo ben diverso: quello di far “emergere” non tanto i capitali detenuti all’estero, quanto quelli tenuti in Italia in cassette di sicurezza o in altri luoghi sicuri. Per ottenere questo si era proposto un prelievo “una tantum” del 35% sul contante e una sostanziale immunità penale (sarebbe stata sufficiente una dichiarazione del contribuente e l’Agenzia delle Entrate avrebbe solo potuto opporre prove certe e dimostrate della provenienza illegale del dichiarato: una cosa quasi impossibile).
Grande levata di scudi contro questa proposta perché garantiva una tassazione ben inferiore a quella pagata da chi si era comportato correttamente verso il Fisco: un condono bell’e buono!
Ma nessuno, o pochissimi, hanno fatto rilevare un’altra importante incongruenza del progetto: quella di considerare automaticamente denaro frutto di evasione o paggio di reato il contante posseduto da un privato cittadino. Ma quale legge vieta di tenere in casa (o in cassetta di sicurezza) i propri guadagni sotto forma di contante? Ed è forse obbligatorio metterli su un conto corrente per non essere accusati di frode fiscale?
È il solito “modus operandi” del Fisco italiano (e non): considerare i cittadini come evasori sinché non dimostrano il contrario, tassare non tanto gli utili al momento in cui vengono percepiti, quanto il loro possesso o il momento in cui vengono spesi.
Un vero fisco efficiente e liberale dovrebbe prelevare il dovuto in un solo momento: quando gli utili vengono creati (o distribuiti), cioè quando il cittadino ha davvero un guadagno. Poi ognuno può tenere i propri soldi dove e come vuole e spenderli quando e nel modo che preferisce.
Altrimenti finiamo per considerare la nonna che teneva i soldi nel materasso non fidandosi delle banche (e faceva bene!) un bieco evasore.
Angelo Gazzaniga