Wyndham Lewis contro la Stato sociale

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Da dove nasce lo Stato sociale e da dove trae la sua forza?

Lo scrittore e pittore anglocanadese Wyndham Lewis (1882-1957) ha avuto varie fasi nella sua vita, sempre animata da bersagli polemici ben precisi. Fra le tante battaglie che questa multiforme personalità ha intrapreso c’è quella, forse meno conosciuta, che ha ingaggiato contro lo Stato sociale che nel dopoguerra ha mosso i primi passi in un’Inghilterra governata dai laburisti.
Personaggio controverso, fondatore con Ezra Pound del più importante movimento d’avanguardia inglese del ‘900, il vorticismo, su Lewis grava una damnatio memoriae dovuta a un libro pubblicato nel 1931, intitolato semplicemente “Hitler”. In questo ritratto impietoso della corruzione e della decadenza della Germania di Weimar, il movimento nazionalsocialista allora in ascesa strepitosa (di lì a poco avrebbe conquistato il potere) veniva descritto con una certa simpatia. Il futuro cancelliere del Terzo Reich appariva come un “uomo di pace”, capace di far risorgere la sua patria dalle rovine della guerra e delle umiliazioni imposte da Versailles. Ma già nel 1937 Lewis si rese conto di quanto la sua analisi fosse errata: il militarismo nazista stava gettando l’Europa in un conflitto senza precedenti. E così prima di partire per l’America, dove si trasferì fino al 1945 per evitare i bombardamenti su Londra, pubblicò nel 1939 “The Hitler Cult”, in cui ribaltò completamente la sua prospettiva precedente e denunciò gli aspetti grotteschi e pericolosamente aggressivi del regime nazista.
Tornato dopo il secondo conflitto mondiale in un’Inghilterra impoverita e distrutta dai lunghi anni di devastazioni belliche, Lewis assistette con angoscia alla vittoria laburista che decretò nel luglio del 1945 la nomina di ClementAttlee a primo ministro. Gli elementi che più preoccupavano lo scrittore erano l’alta tassazione imposta per coprire l’aumento delle spese sociali del nascente Welfare State e la riforma sanitaria, introdotta nel 1948, che introduceva a suo avviso una burocratizzazione eccessiva e disumanizzante del campo ospedaliero. Le critiche di Lewis alla situazione in cui versava la Gran Bretagna in questi anni è affidata a una serie di racconti, per lo più dal taglio satirico, intitolati significativamente “Rotting Hill” e pubblicati nel 1951. Il famoso quartiere londinese di Notting Hill diventa “Rotting Hill“, la “collina marcia” in cui avanza il socialismo di Stato, la miseria e la corruzione. Sin dalla prefazione ai racconti, Lewis chiarisce la sua posizione: “Se esistiamo, trasandati, malnutriti, appesantiti dal debito (tassati più di chiunque in qualsiasi età), dobbiamo ringraziare la nostra stupidità collettiva”. Il riferimento è evidentemente a quella “manciata di socialisti giubilanti, mandati al potere” dal voto popolare che il 26 luglio 1945 sancì la vittoria dei laburisti. La tassazione nell’isola toccò il suo apice con il bilancio approvato dal cancelliere Stafford Cripps nel 1947: un’imposizione fiscale alle stelle venne introdotta nella speranza di ridurre le pressione dell’inflazione. Per Lewis i laburisti “sono andati avanti nell’imporre una tassazione abnorme, diretta e indiretta”, per ottenere quel “capitale gigantesco necessario ad ingaggiare la luna di miele con i lavoratori della classe operaia”. Per celebrare l’estinzione dei proprietari terrieri “tassati fino alla morte” e la “rapida dissoluzione della borghesia”, il governo ha varato tutta una serie di festività, come il Festival of Britain, per dimenticare che l’Inghilterra “ha perso tutto, e per vivere filosoficamente giorno per giorno grazie ai sussidi forniti dagli Stati Uniti”. Eppure, nota Lewis, “la decadenza è ovunque”.
Ma, si chiede lo scrittore, da dove trae la sua linfa vitale il socialismo britannico? Lewis non ha dubbi: lo Stato Sociale è “il prodotto finale della religione biblica”. Il principio di “coscienza è alla radice del principio di giustizia sociale” ed è “tutto ciò che rimane del cristianesimo protestante”. Così come “il liberalismo era solo una prima fase del socialismo” e il liberalismo ottocentesco non era altro che un “prodotto della cristianità”: “la logica conclusione era, per le classi che possedevano ricchezza e potere, di arrendersi, e, naturalmente, l’Inghilterra stessa, essendo una nazione che possedeva un quarto del pianeta, doveva rinunciare a tutto, a parte quest’isola, e anche quest’ultima non deve essere considerata con un’ottica troppo possessiva”. “Un lungo processo di condizionamento religioso (ultimamente operante con parole come ‘decenza’, ‘correttezza’, ecc.) ci ha condotti al punto in cui il potenziamento dello Stato ci priva praticamente di tutto. Questo è merito di Gesù”.
L’aspetto religioso viene analizzato da Lewis in due racconti: The Bishop’s Fool e Parents and Horses. Il primo narra le vicende di un pastore anglicano, Samuel Rymer, basate sulla figura di Willis Feast, un religioso frequentato da Lewis dopo il conflitto. L’episodio offre allo scrittore lo spunto per tornare sulle origini cristiane del Welfare State con un esito però inaspettato: “Il governo socialista attuale è il risultato più spettacolare di un culto realmente idealistico – e sarà l’ultimo. La politica moralistica della cristianità protestante era violentemente anti-autoritaria (…) e ora ha generato il suo opposto: una realtà dura e autoritaria”. La burocratizzazione esasperata, lo statalismo onnipresente, una fiscalità che sfiora la rapina sono il frutto per Lewis della cristianità riformata. Un frutto avvelenato, per lo più mascherato da un sentimentalismo e buonismo che lo rende ipocrita. Al confronto il comunismo ha almeno il pregio di essere sfacciato. “In Francia o in Italia il comunismo è esplicito, non ‘cripto’ come in Inghilterra. Il comunista dichiarato si riconosce subito. Sarebbe suggestivo pensare come si comporterebbe in questi tempi un’Europa puramente cattolica. Probabilmente avremmo una società pragmatica e ordinata, invece che questo febbrile collage ideologico, la rabbiosa indisciplina dei partiti”. Quindi Lewis dichiara la sua posizione al di sopra delle parti: “Non appartengo ad alcun partito. (…) Preferisco occuparmi della verità non pragmatica. Una letteratura al servizio della propaganda cessa di essere arte, diventa un veicolo di intossicazione e falsità”. Una chiara allusione alla triste sorte del suo amico Ezra Pound, che per aver trasmesso dei discorsi dall’Eiar durante la seconda guerra mondiale venne accusato di tradimento e proprio in quegli anni si ritrovava rinchiuso nel carcere criminale di St. Elizabeths a Washington D.C.. E forse anche un ripensamento rispetto al suo (per quanto tiepido e in realtà distaccato) filo fascismo degli anni Trenta.
In Parents and Horses invece Lewis si concentra sulla questione dell’educazione. Tracciando un ritratto del sacerdote anglicano Henry Swabey (chiamato Matthew Laming nel racconto, un curioso intellettuale vicino alle tematiche poundiane sull’economia, fautore del Social Credit, autore fra l’altro di un voluminoso studio sull’usura e la Chiesa d’Inghilterra), si narra la storia del tentativo di evitare la chiusura delle piccole scuole indipendenti di paese (come quella parrocchiale di Lindsell, nell’Essex) da parte dell’accentratrice Education Authority che procedeva agli accorpamenti forzati degli istituti, spesso contro il volere della popolazione locale. Una battaglia persa dal popolo, appoggiato da alcuni coraggiosi sacerdoti come Swabey, e vinta dallo Stato padrone. Swabey viene descritto come un moderno don Chisciotte, impegnato nella missione impossibile di “arginare l’ondata socialista”. L’episodio “dimostra quanto sia futile la resistenza” contro lo statalismo, in quanto la centralizzazione è “inevitabile”. “Il villaggio inglese è solo una reliquia patetica”. Ma Lewis non nasconde le sue simpatie per questo, per quanto anacronistico e velleitario, combattente in difesa delle libertà tradizionali: ”ammiro questo resistente e condivido molte sue convinzioni”. Tra queste la battaglia, molto poundiana, contro l’usura: “Le banche e assicurazioni, chi emette crediti inesistenti, l’intero sistema iniquo del credito, è ciò di cui si parla – l’ad della tua banca è l’ultrausuraio. (…) Ovviamente ciò che l’indebitamento ha fatto per rovinare la nostra civiltà non può mai essere esagerato. Una grande guerra significa un grande debito. E c’è ora una montagna così imponente di debito che noi esistiamo solo per pagarlo, anche se, schiavi quali siamo, giorno e notte, non riusciremo mai ad estinguerlo”. Nella lotta impari fra l’oppressione e la libertà, Swabey “sta per il vecchio ordine: per la Famiglia contro lo Stato. (…) Da una parte c’è il terribile colosso del socialismo, dall’altra questo fragile, povero prete”. Un “piccolo animale” che ha osato sfidare il Golia dello “Stato onnipotente”. Swabey “crede che il governo agisca con un impulso malvagio quando vuole dividere i villaggi e trasformare tutta l’Inghilterra in una fabbrica, dividere le case dei contadini, lavorare per la distruzione della Famiglia”. L’industrializzazione forzata “trasforma il processo umano in processo meccanico”: è evidente l’influenza sovietica in questa pianificazione pervasiva del Welfare State. “L’infezione dalla Russia è un fattore importante. Lì l’industria è diventata una divinità potente”. La sfida di Swabey è destinata a scontrarsi contro il muro del processo inevitabile di collettivizzazione: quasi un don Milani ante litteram, ma ferocemente anticomunista, quando le autorità chiudono la scuola del villaggio, il sacerdote ne apre una autogestita in parrocchia. Ma alla fine, di fronte alle minacce delle istituzioni, viene abbandonato anche dai suoi fedeli e si trova costretto a chiudere la sua scuola libera. Persino l’orgoglioso villaggio inglese si arrende “ai comandi dello Stato centralizzato”. Il pessimismo di Lewis è confermato da questa triste vicenda: “Il villaggio è ora, in Inghilterra, solo un nome. La Famiglia che così giustamente voleva difendere non esiste più”. E’ il risultato di una situazione globale: “Due guerre mondiali in rapida successione hanno accelerato la fine del cristianesimo in Inghilterra. Il socialismo, con il passare del tempo, fondendosi con il comunismo, prenderà il posto della religione nella forma di un millenarismo fraterno – un paradiso terrestre per i bravi ragazzi socialisti, un inferno in terra per i cattivi (vedi i campi di lavoro, le miniere di sale ecc.)”.
Chi è causa del suo male pianga se stesso, verrebbe da dire, visto che abbiamo già notato come Lewis ritenga il socialismo una conseguenza diretta del cristianesimo che, quindi, in ultima analisi mira a sostituire e distruggere. Ma c’è una distinzione da fare: per l’autore di “Rotting Hill” il cristianesimo che prepara la via allo statalismo collettivista è quello riformato. Lewis infatti, pur essendo di formazione protestante (o forse proprio per questo motivo), salva il cattolicesimo che ritiene una religione sana, realista, capace di difendere i valori fondamentali dell’esistenza, come la famiglia appunto (non a caso con la F maiuscola in questi racconti), l’autorità della figura paterna , la libertà educativa o anche semplicemente il buon senso minacciato dalle assurdità delle ideologie moderne. Questa visione era già ben chiara nel suo impegnativo volume filosofico pubblicato nel 1927, “Time and Western Man”, in cui critica i “filosofi del tempo” (come Henry Bergson e Oswald Spengler) che venerano il progresso (o il regresso) dell’Occidente, senza considerare l’immutabilità dell’essenza umana. Non è un caso se l’eroe donchisciottesco di “Rotting Hill”, Swabey, pur essendo un sacerdote anglicano, appartenga a quell’ala della Chiesa d’Inghilterra più vicina a Roma, i cosiddetti anglo-cattolici.
Nella visione cupa di Lewis non si salva neanche la democrazia britannica. In particolare nel capitolo intitolato, significativamente, “The Talking Shop”, viene smantellato il mito del parlamentarismo inglese, con il sottile tono ad un tempo ironico e paradossale che contraddistingue lo scrittore. Lewis inizia il suo racconto narrando il giorno in cui, invitato da un onorevole, entrò a Westminster, superando facilmente i pochi controlli di sicurezza per i visitatori. E immagina quanto sia facile, per un eventuale attentatore, far esplodere quel palazzo dove da secoli si litiga e si legifera in nome del popolo britannico (forse un suo sogno proibito?). Ma poi evidenzia subito l’inutilità di un tale gesto estremo: “Evita di imbarcarti nell’impresa. Se consideri il parlamento non solo un negozio parlante ma anche un luogo di potere, ti sbagli di grosso. Metti via la tua bomba, caro signore. (…) Non faresti saltare in aria quello che con tanta passione pensi che sia, ma semplicemente una grande compagnia teatrale. Lo spettacolo si chiama ‘crisi’. Ma non c’è alcuna crisi. La sceneggiatura è il conflitto in una democrazia libera fra sinistre e destre. Ma la differenza fra ciò che vogliono le sinistre e le destre è minima – e non c’è democrazia”. Il parlamento viene descritto come un museo delle cere in un ambiente surreale: “Un’ombra di ciò che era Gemot [l’antica assemblea legislativa medioevale], come la ‘monarchia costituzionale’ e numerose altre istituzioni fossilizzate, preservate con l’inganno e incerate per simulare la vita”. E’ una “macchina per votare” che rimane “addormentata e zitta la maggior parte del tempo – salvo destarsi a volte in un coro dissonante. Visto che attualmente è nella natura delle cose che si voti sempre nello stesso modo, la presenza di quei signori seduti lì è del tutto inutile”. Meglio sarebbe sostituirli con qualche “centinaio di disoccupati” che svolgerebbero altrettanto efficacemente la funzione di marionette votanti e che per lo più costerebbero molto meno degli onorevoli. “Il potere è altrove”. Lewis qui non dice dove, ma in un testo del 1938, “The misteriousMr Bull”, l’aveva evidenziato così: “l’Impero è controllato dalla City”. I burattinai, chi decide il destino del Paese, non siede a Westminster ma nei palazzi oscuri del potere finanziario. “Il governo è passato nelle mani del ‘capitalisti del credito’, i grandi finanzieri”. “La democrazia parlamentare”, scriveva nel 1938, “non è altro che un sistema di camuffamento magistrale, attraverso il quale tutti i decreti del governo oligarchico possono essere mascherati come emanazioni spontanee della volontà popolare”. Qui le “elezioni politiche sono una farsa evidente”: l’elettore è chiamato a scegliere fra “un paio di leader che sostengono le stesse cose”. E’ una democrazia di facciata, senza sostanza, un “gioco”, “l’ipnotismo del governo delle masse”. Alla fine, tornando a “Rotting Hill”, ciò che conta è tenere sotto controllo la popolazione, ad esempio attraverso l’illusione della libertà democratica, per far sì che i “giochi”, appunto, del vero potere, quello finanziario, possano essere portati avanti senza alcun controllo da parte di quelli che rimangono sotto tutti gli effetti dei sudditi (anche se vengono chiamati cittadini o elettori). “Il dispotismo è la regola per l’umanità”, osserva sconsolato Lewis. E quale strumento meglio del “potere totale riferito al socialismo di Stato” per realizzare indisturbati i progetti del grande capitale finanziario internazionale che ha base nella City di Londra?
Si capisce bene allora come Lewis, nella sua critica spietata allo Stato Sociale, intenda demolire tutto il sistema britannico, il suo stile di vita, la sua cultura, svelando gli altarini di un mondo ipocrita e falso. Un mondo marcio.

Andrea Colombo

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Andrea Colombo
Andrea Colombo (Torino 1965) è un giornalista professionista e saggista specializzato in letteratura anglo americana. Ha scritto, fra l’altro, una controstoria del rock (“Sesso, droga & rock’n’roll”, “Fogli” n.219, 1995), una guida ai principali luoghi di spiritualità cattolici italiani (“Guarire l’anima. Itinerari dello spirito”, Leonardo Mondadori, 1998) e un saggio sui rapporti fra Ezra Pound e il cattolicesimo (“Il Dio di Ezra Pound”, Ares, 2011). Ha tradotto e curato diverse opere di Ezra Pound (fra cui i controversi “Radiodiscorsi” della seconda guerra mondiale, per Il Girasole 1999, nonché i pamphlet economici, “L’Abc dell’economia e altri scritti”, per Bollati Boringhieri 1996), G.K. Chesterton, R.H. Benson e C.S.Lewis. Collabora con le pagine culturali de “La Stampa”, con il mensile di “Avvenire”, “Luoghi dell’Infinito”, e con “Studi Cattolici”. Residente a Milano, ha vissuto in varie parti del mondo, fra cui New York, Sydney, Londra, Oslo e Helsinki. Appassionato di storia dell’arte antica e contemporanea, sta preparando una “controstoria dell’arte” e un saggio sul giovane Cioran. Si definisce “un liberista jeffersoniano con una spiccata predilezione per l’anarchia”.

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